martedì 4 agosto 2020

Gina Berriault

Nel periodo tra la seconda guerra mondiale e il conflitto in Corea, un segmento storico segnato da profonde trasformazioni sociali ed economiche, Vivian Carpentier e Paul Cardoni si sposano. Hanno poco più di vent’anni: lei si è appena laureata, lui fa il cameriere sognando Hollywood. Per quanto inconcludente e destinato a durare ben poco, il matrimonio produce un bel bambino che Vivian “chiamò David, non in onore di un qualche parente o amico, ma perché quel nome l’aveva sempre affascinata, ricordandole il ragazzo che era riuscito a uccidere il gigante e da adulto era diventato re; un nome che le richiamava un’eterna giovinezza”. Il figlio mette subito in evidenza la distanza tra le persone e anche nel rapporto con i genitori, Vivian si accorge che “le madri facevano sempre parte del passato e non del futuro”. Essendo diventa a sua volta una madre, dopo il primo marito, nel frattempo disperso da qualche parte in America, Vivian acconsente soltanto a legami con una data di scadenza, per quanto appassionanti e, non di rado, dolorosi, come la relazione con Max Laurie. I personaggi sono tormentati e disorientati, la felicità è preclusa e Gina Berriault è un’osservatrice estrema, che non si permette una distrazione (e non ne concede al lettore), con scelte singolari. Su tutte, il tono descrittivo che privilegia il dettaglio, l’atmosfera, la scena e le immagini rispetto all’inseguimento della voce dei personaggi. Con i dialoghi ridotti ai minimi termini, come se le parole fossero una fonte di equivoci e quindi un limite imprevedibile, Il figlio è un romanzo denso che distilla il tormenti dei protagonisti, in particolare di Vivian. L’ossessione per il figlio è costante, e la divora, e lo sguardo di Gina Berriault, che osserva le gesta e le emozioni dei personaggi con un particolare microscopio, porta a condividerla in tutte le sue sfumature. I legami sfuggenti con gli altri uomini scandiscono lo scorrere delle giornate di Vivian, ma in un modo o nell’altro lei ritorna comunque al figlio, l’unico punto fermo della sua vita. Un polo magnetico che la attrae ben oltre il rapporto naturale tra madre e figlio e nello stesso tempo è un ostacolo impraticabile per gli uomini che sono disordinati, affaticati, rallentati dall’alcol e dalla noia, incapaci di vedere un legame più concreto di una scorribanda al club. La trama ruota attorno a questi cambi e il bilancio è decisamente limitato: “Ogni volta che un uomo scompariva dalla sua vita, era come se il tempo con lui l’avesse privata della possibilità di trovare altro tempo per altre persone. Una sua possibile vita era andata perduta”. Mentre svaniscono personaggi sono stratificati uno accanto all’altro ed è come se Gina Berriault li usasse per dissimulare il vero baricentro dell’esistenza di Vivian. A Gina Berriault sfugge un ossimoro quando dice che “sarebbero stati soli insieme”, un’ammissione che rivela come Vivian si sia accorta che “nella solitudine del figlio vedeva un ragazzo in procinto di diventare un uomo ricercato, un uomo che avrebbe fatto della solitudine un modo di vivere, desiderato e bramato a causa di essa”. È in quel momento che il passo della scrittura di Gina Berriault si mostra in tutta la sua efficacia: Il figlio impone un finale drastico, in gran parte prevedibile, ma non meno disturbante. Gina Berriault ci arriva dopo aver costruito un’impalcatura raffinata, che tocca gli abissi più intimi e oscuri dei personaggi. Il corto circuito è cominciato per tempo  quando, rispetto a David, “Vivian sapeva che riusciva a capirla meglio di chiunque altro. Nessuno la conosceva così bene, tanto vicino da poter violare il suo privato, sapendo che questo non avrebbe mai potuto sminuire o negare l’amore che lei provava per lui”. Ci sarà solo un modo per sciogliere questa tensione e Gina Berriault si astiene da ogni valutazione morale, come del resto aveva fatto con Vivian e i suoi maldestri amanti. Lo racconta con una raffinatezza seducente, tale da rendere affascinante anche un’esperienza che non può avere assoluzione.

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