martedì 18 dicembre 2018

Jim Harrison

Il grande capo è il romanzo di “un drogato di ricordi”: Sunderson, il protagonista, deve aver preso la mano a Jim Harrison portandolo a spasso (come se l’identificazione con il personaggio fosse completa, alcol compreso). I rilievi autobiografici compongono soltanto una parte della personalità di Sunderson che riassume in sé i tratti di molti personaggi di Jim Harrison, tra cui gli tormenti di Robert Corvus Strang il protagonista di Luci del Nord e gli appetiti di Nordstrom in L’uomo che rinunciò al suo nome (una delle “leggende dell’autunno”), tutti uomini in bilico, con vite inzuppate d’alcol e consumate fino al midollo. En passant, c’è anche un minuscolo richiamo a Un buon giorno per morire, ma la differenza è che Sunderson è un investigatore della polizia del Michigan, con un matrimonio fallito alle spalle perché “quando si passa tutto il giorno a monitorare i comportamenti peggiori della specie umana si finisce per portare il lavoro a casa”. Gli succede anche negli ultimi giorni della sua carriera quando gli si presenta davanti Il grande capo ovvero ovvero G. C., o Dwight, o Daryl guida una setta che condensa le uniche e impellenti necessità di “sesso, denaro e religione”. Tra i suoi riti di iniziazione (oltre a impossessarsi di percentuali significative dei patrimoni degli adepti), predilige l’abuso di bambine, particolare quest’ultimo che rende Sunderson particolarmente sollecito e reattivo nelle indagini. Solo che, proprio mentre sta cercando le prove e le testimonianze per incastrarlo, per Sunderson scatta l’ora del pensionamento e si ritrova nelle condizioni di affrontare dilemmi rimandati a lungo, a partire dalla scoperta della propria fragilità. Libero di pensare, con la mente “diventata un tavolo da ping-pong”, Sunderson vagheggia tra passioni più o meno innocue (la pesca al salmerino, la ricerca storica) e un’attrazione irresistibile verso l’universo femminile che lo porterà a districarsi tra Roxie, Carla (un’emissaria del grande capo), Lucy, Melissa, Diane (l’ex moglie) e Mona. Quest’ultima, appena sedicenne, è la sua vicina di casa, è stata abbandonata dai genitori ed è molto intraprendente e volitiva. Sunderson nutre sentimenti protettivi nei suoi confronti, ma non può esimersi di lasciarsi sfiorare da un’attrazione tutt’altro che filiale. Il tocco irriverente di Jim Harrison si vede in questi giochi di rifrazione di cui Il grande capo è farcito come un tacchino oversize nel giorno del Ringraziamento, tanto che più ci si addentra nella lettura e più si viene risucchiati nei ghirigori esistenziali di Simon Sunderson. L’inseguimento al leader della setta religiosa, un’occasione fin troppo ghiotta per Jim Harrison per smascherare la ricerca di “una spiritualità artificiosa”, lo porta in Arizona, dove le giovani seguaci gli tendono un agguato a colpi di pietre. La scena della lapidazione è la svolta, e non soltanto per gli inevitabili richiami biblici. Da storico dilettante, Sunderson dovrebbe sapere che, come diceva  il citatissimo Bernard DeVoto in A Treasury Of Western Folklore “la storia è l’espressione sociale della geografia e la geografia del West è violenta”. Da quel momento Sunderson comincia a rilanciare le sue attenzioni verso una stramba famiglia (la sua) che va allargandosi, si concede il tempo necessario per esplorare la wilderness nel West e nella Penisola Superiore, riallaccia legami e lascia fiorire piccole e grandi ossessioni letterarie (compresi Gary Snyder, D. H. Lawrence e l’immancabile Hemingway). Senza dimenticare Il grande capo, ma avvicinandosi con cautela, come se a ogni passo dovesse scavalcare i suoi (numerosi) limiti, che uno dopo l’altro, compongono “i detriti della sua mente” L’introspezione e l’indagine si sovrappongono e negli appunti di Sunderson, il suo modo per ritrovare un minimo di lucidità, si coagula un flusso di coscienza che costituisce, nei fatti, un racconto parallelo. Il romanzo è macchinoso, contorto e pantagruelico come i suoi spuntini (“Il miglior sandwich di tutta la sua lunga vita: pane di segale con due grosse fette di di punta di petto di manzo e il cren più piccante del mondo, tanto che dai suoi occhi sgorgavano libere lacrime di dolore e piacere”) o il consumo di whiskey, ma nell’ombra di Sunderson cammina Jim Harrison nello splendore di tutte le sue idiosincrasie americane, finale (spassoso) compreso

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