Basato su una storia vera, per quanto assurda possa sembrare, Una stanza piena di gente ripercorre il caso emblematico di William Stanley Milligan, che in tutta la sua complessità mette in discussione gli elementi del diritto e della psichiatria in relazione alle “personalità multiple”. Tutto comincia nell’ottobre del 1977 quando Milligan, all’epoca poco più che ventenne, viene arrestato per violenze sessuali e rapine ad danni di tre studentesse universitarie. Lui si proclama innocente, ma non riesce a capacitarsi dell’evidenza delle prove che lo conducono dritto in tribunale. Durante il processo, però, gli viene diagnosticato e riconosciuto un gravissimo disturbo psichiatrico: nella sua mente convivono dozzine di personalità che hanno una loro autonomia, in termini di decisioni e responsabilità, una gerarchia e un modo imperscrutabile di “uscire sul posto”, ovvero di presentarsi nei momenti più o meno opportuni. Billy o il vero William Milligan affida a ciascuna delle altre “personalità” una missione, uno scopo: assorbire il dolore, proteggersi in ambienti ostili, trattare con le istituzioni, gestire le emozioni, a partire dagli atroci traumi subiti nell’infanzia. Un complesso sistema di autodifesa, compreso il “sonno” dello stesso Billy, tenuto in disparte dalle altre personalità perché “se vogliamo sopravvivere in questo mondo, dobbiamo fare un po’ di ordine in tutto questo caos”. Il dilemma centrale è la capacità di intendere e volere di un individuo occupata da “personalità multiple”, con tutte le ambiguità giuridiche, giornalistiche e, più di tutto, politiche che hanno condizionato il caso di William Milligan. Come imputato la sua esigenza principale è quella di chiunque: “Voglio essere di nuovo un cittadino. Vorrei imparare da capo a vivere”. A quel punto giocano un ruolo fondamentale le istituzioni, l’esercizio dell’autorità e l’amministrazione della giustizia dagli ospedali al carcere, e il trattamento della malattia mentale, tra la coercizione e il tentativo delle cure, che prevede la “fusione” delle personalità, in cerca di un equilibrio. Daniel Keyes, dal canto suo, organizza il racconto con caparbietà e con un’attenzione speciale. Dove non è sufficiente la documentazione ufficiale a cui ha attinto ci arriva la sua abilità di narratore che riesce a congiungere tutti i punti lasciati in sospeso, ma soprattutto a delineare con estrema precisione l’intricata querelle, rendendo avvincenti anche gli aspetti più contorti e macchinosi della realtà giuridica e scientifica. Dalla metà in poi, cioè dalla storica sentenza, Una stanza piena di gente diventa in effetti diventa un lunghissimo flashback che mette in evidenza la turbolenta convivenza delle “personalità multiple” che sono divise dall’età, dalla loro percezione, persino dalle idee politiche o dai “vuoti di tempo” lasciati quando il palcoscenico della vita è occupato da qualcun altro. Così, quando “sembrava che le cose succedessero sempre più ravvicinate tra loro, si stava preparando un altro brutto periodo di confusione”, la distanza tra figure prominenti come “il Maestro” o poco più che fugaci come gli “indesiderabili” che convivono in William Milligan aumenta e ci conseguenza si aggrava il suo disturbo dissociativo. Nella versione di Daniel Keyes la convivenza e il conflitto delle personalità affiora come un riflesso della società in sé e Una stanza piena di gente ha senza dubbio il pregio di illustrare un tema ostico, da tutti i punti di vista, ma la questione resta irrisolta e così l’enigma di William Milligan che, stando alle notizie più recenti, sarebbe diventato un produttore di Hollywood. Nessuna sorpresa, lì la sua patologia è uno stile di vita.
giovedì 18 settembre 2025
lunedì 15 settembre 2025
Paul Bowles
Quando propose Il tè nel deserto ai suoi editori, se lo vide respingere perché si aspettavano un romanzo e invece si trovarono tra le mani “una cosa diversa”. Nell’episodio in sé, c’è molto di Paul Bowles che scrive per sottrazione, lasciando al lettore il compito di decifrare il fitto tessuto di ombre, lingue, montagne, sogni, premonizioni, incontri, fughe e sparizioni. Il ritmo è cadenzato dal trascorrere delle giornate, alba e tramonto, il caldo asfissiante di giorno e il freddo pungente nel buio, una forma fluttuante con le immagini che compongono l’intero vocabolario, insieme ai suoni che provengono da ogni angolo. C’è una colonna sonora costante, un battito delle mani, la melodia di un liuto, una tromba, un flauto, una fisarmonica o un oud che suonano in sottofondo, un commento musicale latente che tende a sottolineare le esistenze “sradicate” dentro un’altra dimensione dove, in un istante ogni cosa può precipitare. Tocca in particolare ai Moresby, Port e Kit, e al loro matrimonio claudicante e verboso, dove parlano un sacco senza dirsi nulla. Lui, Pche nel suo passaporto alla voce professione ha lasciato un vuoto riesce ad ammetterlo, per quel che vale: “Credo che abbiamo paura tutti e due della stessa cosa. E per la stessa ragione. Non siamo mai riusciti, né tu né io, a immergerci nella vita fino in fondo. Ci teniamo aggrappati all’esterno con tutte le nostre forze, convinti che al prossimo scossone finiremo per cascar giù”. Le disavventure sembrano cercate con una insistenza, persino con noncuranza verso le usanze, le asperità del clima, del paesaggio e per le creature che lo popolano, forse un lascito del retaggio coloniale. Del resto sia Port che gli altri protagonisti hanno l’aria “di chi ha davanti a sé tutto il tempo del mondo, per qualsiasi cosa”. Quello che è comune a tutti è un’ambiguità di fondo: sembrano fuori posto, come se dovessero trovare qualcosa, proprio dove non c’è nulla. L’entità del territorio sahariano è qualcosa in più di uno sfondo e dell’ambientazione: è uno scenario vivo, multiforme, capace di influire in modo pesante sulle vite e sui percorsi delle persone che l’affrontano. Nella prima parte del tragitto Kit è contesa dal marito e dall’amico Tunner si riflette nella seconda, come un miraggio sulle dune, dove Kit è ancora prigioniera di un’altra triangolazione. Quando Port si ammala le condizioni diventano insostenibili: “E gli passò per la mente che una passeggiata attraverso la campagna era una sorta di epitome del passaggio attraverso la vita stessa. Non ti concedevi mai il tempo di assaporare i particolari; dicevi: un altro giorno, ma sempre con la segreta consapevolezza che ciascun giorno era unico e definitivo, che non vi sarebbe mai stato un ritorno, un’altra volta”. Città emergono dalla sabbia: Aïn Khorfa, Bounoura, El Gaa, Sbâ, ogni volta diverse e uguali, tappe che per Kit, una figura femminile enigmatica, sono altrettante prove di una mutazione. Se, all’inizio, “si trattava unicamente di resistere, di esserci” che suona un po’ come un presagio, la destinazione finale è drammatica. L’andamento del romanzo ricorda così l’istinto dei viaggiatori che tendono a compiere un cerchio, prima o poi e ci ricorda che “il deserto è un posto così grande, eppure niente va veramente perduto, mai”. Paul Bowles si mimetizza spesso e volentieri tra i suoi personaggi, condividendo “le assurde banalità che riempivano la giornata e una cosa seria come mettere parole sulla carta” e quel senso latente di tragedia, che prima di tutto interviene nelle relazioni. Il tè nel deserto è un romanzo che attrae e confonde le idee con i suoi panorami estremi: è torbido e sinuoso e attraverso i suoi tempi dilatati coinvolge i sensi nell’attraversare odori, rumori, sensazioni, silenzi e poi “soltanto oscurità. Notte assoluta”. Bon voyage.
mercoledì 10 settembre 2025
Joan Baez
Nel corso di una lunga lettera aperta a Leonard Cohen, Joan Baez gli chiede: “Siamo solo noi, Leonard, o siamo più persone alla volta?”. È una quesito che trova risposte in abbondanza nel corso di Quando vedi mia madre, chiedile di ballare. Le personalità multiple di Joan Baez sono per sua stessa ammissione “una comunità sempre crescente di esseri interiori” e affollano un viaggio nel tempo caotico e ballerino. Sarebbero anche un bel problema, da un punto di vista psicologico, ma lasciarle fluire in libertà è stato un approccio singolare, che però alla fine funziona. A partire dall’inizio, dai tributi alla madre (“C’è mia madre che versa il tè. Io respiro, l’aria entra, l’aria esce”), al padre, al figlio, alle dinamiche famigliari con piccoli ritratti, ricordi e fotografie d’epoca che cambiano forma con lo scorrere degli anni, in tutte le direzioni. I frammenti dell’infanzia hanno una loro tenerezza e sono svolti con genuina semplicità: tutto il linguaggio è elementare, folk, popolare, intuitivo, eppure denso e, a volte, inestricabile. In Paura scrive: “La vita sono solo secondi, dicono, uno dopo l’altro e l’altro ancora, e avanti così per sempre finché non si muore. Se è davvero così, perché non riempire ogni secondo di luce?”, e la risposta non soffia nel vento, ma negli interstizi di Quando vedi mia madre, chiedile di ballare. Una lunga ballata che si conclude proprio dicendo: “Si dice che lo spirito non abbia età, quando si risveglia al mutamento della sua condizione. Ma io credo che un’età ce l’abbia, quella di un momento preciso di mirabile occasione”. Le scritture di Joan Baez, frammenti letterari che non sono né poesia né narrativa, ma un po’ di una e dell’altra, sono come le sue canzoni, molto semplici e pratiche in superficie, e tormentate e profonde più ci si addentra. L’ossimoro di una “tranquilla incursione” in La lama del narciso e la definizione di “una serie di vivide immagini dipinte” si adattano benissimo, in particolare alle protagoniste femminili, “belle come il sole”: Vivian, Jasmine (“Tu fai un rutto e il mondo applaude), la magica Lily, Colleen e Pauline, in particolare, che sussurra ai serpenti a sonagli e condivide il sentiero con il puma (c’è spazio per tutti e due) e che aveva “piantato bocche di leone e papaveri per la bellezza e salvia e gelsomino per il celestiale profumo”. In mezzo a tanta grazia, lo sguardo di Joan Baez si sofferma a lungo a fissare la La grande onda di Kanagawa di Katsushika Hokusai o American Gothic di Grant Wood per poi descrivere il pellegrinaggio, voluto e dovuto, a Big Sur. Non c’è nulla di lineare, se non le forme degli omaggi che riportano inevitabilmente a un’età molto lontana, ormai irraggiungibile. Le celebrazioni di Jimi Hendrix (“Suonasti appena prima di me all’isola di Wight e in qualche modo riuscisti ad accendere gli animi. Io suonai nella tua scia che ancora balenava nei riflettori”), Leonard Cohen, Judy Collins e, inevitabilmente, il richiamo a tale Robert Zimmerman “figlio dagli occhi azzurri di Duluth” che “scribacchiava sogni pensati”, comunque “roba brillante”. Ogni riferimento, si sarà capito, non è casuale, così come per la sorella Mimi, già moglie di Richard Fariña, che completa le ricognizioni famigliari prima del ballo della madre da cui comincia e finisce tutto. Il suo è uno sforzo di memoria, non privo di nostalgia, che avvolge le parole seguendo l’istinto perché “la scrittura è come l’amore, non può essere forzata o muove in corso d’opera”. Quelle di Joan Baez sono “lezioni a impatto molto basso” che lei srotola un po’ a caso, in disordine, come se stesse camminando scalza, a occhi chiusi, come capitava allora con Jim, e Bob, e Judy e Leonard e Mimi e tutti insieme cantavano la stessa canzone, per sempre giovani.
lunedì 1 settembre 2025
James Lee Burke
Con James Lee Burke, la Louisiana è sempre un’esperienza nel tempo e nello spazio, anche filtrata attraverso le gradazioni di un Arcobaleno di vetro. Lo schema magari è noto e si è ripetuto negli anni e un paio di dozzine di romanzi, ma è anche vero che chi conosce le abitudini di Dave Robicheaux e di Clete Purcel non si aspetta nulla di differente, se non la consueta lotta senza esclusione di colpi contro antichi e nuovi nemici che sono sempre predatori del territorio, degli indifesi e degli innocenti, con un’innata estensione verso la sfera sessuale, in generale, e quella femminile, in questo caso specifico. Il groviglio che filtra dall’Arcobaleno di vetro comprende tutta una fitta serie di personaggi che lasciano un alone malefico per ogni passaggio che va ad aggiungersi alla quotidiana amministrazione di miscela di brutalità, indifferenza e crudeltà che Dave Robicheaux deve sopportare un giorno dopo l’altro da troppo tempo, tanto da confessarsi così, senza alcun pudore: “Nel mio lavoro c’erano momenti in cui avrei voluto scavare una buca nella terra, seppellire il mio scudo e strofinarmi la pelle con l’acqua ossigenata”. In Arcobaleno di vetro si chiamano Robert Weingart, Kermit Abelard, Herman Stanga, Layton Blanchet e in un modo o nell’altro nella gestazione dei loro sordidi intrighi hanno commesso l’errore di incrociare gli stessi sentieri di Streak e Clete che riescono a sopravvivere grazie alla convinzione che “quello che gli altri fanno o non fanno non è un fattore determinante. Noi non cessiamo di essere quello che siamo”. La separazione tra buoni e cattivi è tutta lì ed è già esplicita nella distinzione sul terreno, dove vivono Clete e Streak e dove dominano gli altri. Per loro, le strade, il cibo, il clima, i temporali, la pioggia, le albe e le notti che fioriscono nella scrittura di James Lee Burke, sono una componente irrinunciabile del paesaggio della Lousiana che ha angoli rappresentativi ovunque. Non fanno parte del bottino, e non lo devono diventare perché come spiega Robicheaux in particolare, c’è qualcosa di più: “respirai l’umida purezza dell’aria e l’odore di uova di pesce, di humus e di alberi bagnati nella palude. Niente di tutto ciò costava cinque centesimi, e questo era un pensiero che speravo di tenere stampato in testa finché sarei vissuto”. Il problema è che nei riflessi dell’ Arcobaleno di vetro vengono messi aleggiano attorno a Streak e Clete segnali che non vogliono (o meglio: non vorrebbero) cogliere, anche se ne hanno chiaramente sentore perché sanno che “la memoria e la presenza sono inestricabilmente connesse e non dovrebbero mai essere considerate entità distinte”. Tutto è reso ancora più complicato dal fatto che Alafair, la figlia adottiva di Robicheaux, ormai diventata scrittrice, è invischiata in una relazione ambigua e rischiosa che mette a dura prova anche i legami famigliari. Del resto il mondo di Clete e Streak è foriero di contraddizioni: l’elemento stesso della violenza (spesso risolutoria) è una caratteristica simbolica ed emblematica, l’elemento soprannaturale anche se limitato a un’allucinazione visiva, un battello che appare nei momenti più critici, è significativo, e i continui contrasti tra i Bobbsey Twins sono un po’ il pepe, il sale e il tabasco in abbondanza sull’Arcobaleno di vetro. Più che mai inseparabili, sono costretti a ricorrere a tutto il loro arsenale, ma va dato atto a James Lee Burke, che le armi da fuoco (e qui si spara un bel po’) restano l’extrema ratio, prima vengono comunque i tentativi di comprendere, una volta di più, cosa sta succedendo nei confini della Louisiana. I limiti, quelli veri, sono molto più diffusi, come ben sa Clete, e lo esprime come meglio non si può: “Hai mai conosciuto un demente che fosse diverso? Hanno saltato l’addestramento all’uso del bagno e all’allacciatura delle scarpe, ma sono esperti di tutto, dalla chirurgia cerebrale alla gestione della Casa Bianca”. Questo è il sottinteso dell’Arcobaleno di vetro, poi la verità è che non vorremmo essere Clete Purcel, ma ci piacerebbe un sacco avere un patio come il suo dove rifugiarci, di tanto in tanto.
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