È molto difficile orientarsi tra i miraggi posticci di Hollywood e Las Vegas, i due poli che definiscono l’ambito territoriale di Prendila così, romanzo di Joan Didion del 1970, diventato un film un paio d’anni dopo. L’insostenibile leggerezza della fiction, che tende a sbriciolare le distanze tra le chiacchiere, i sogni e la realtà, ha un prezzo piuttosto alto da pagare. La confusione di ruoli, percezioni, momenti e legami, alimentata da un flusso senza fine di additivi, richiede una sorta di aderenza totale e insindacabile verso un lifestyle sopra le righe, spumeggiante e allegro in superficie, pericoloso e inesorabile nella sua essenza. Maria Wyeth lo ha assecondato fin dove ha potuto per poi capitolare: attrice e moglie di un regista, si è vista caracollare da un party all’altro, sentendosi via via sempre più estranea a tutti e persino a se stessa perché “non sapeva che cos’era che temeva, ma era qualcosa che aveva a che fare con scatole di sardine vuote nell’acquaio, bottiglie di vermouth nel cestino dei rifiuti, una sciatteria irrimediabile”. Joan Didion è irraggiungibile nel delegare a una processione di singoli dettagli il deterioramento psicologico di Maria che subisce un aborto, il divorzio e l’impossibilità di avvicinarsi alla figlia, Kate. Il tracollo è nell’aria: agenti, amici, amanti, colleghi si confondono nelle notti californiane, ogni tentativo di restare aggrappata a uno scampolo di identità viene frullato nei dialoghi evanescenti al telefono e arriva al capolinea in squallide camere di motel. Quando Maria si accorge “dell’irrevocabilità di ciò che sembrava essere ormai accaduto”, attorno le rimane soltanto il deserto, e non soltanto in senso metaforico. Il capolinea è un set nel Mojave, dove la polvere, il calore e la luce accecante sono un confine invalicabile per Maria che si ritroverà in una clinica a provare a riordinare le sequenze di una vita evaporata senza approdare a nulla di concreto. Joan Didion trova una formula perfetta per dare voce alle apparenze e ai fenomeni che affollano la trama inafferrabile di Prendila così: brevi costruzioni che stanno su una pagina o due, frammenti di episodi, brandelli di dialoghi e scorci di paesaggi dove la desolazione ambientale è consona e complementare alla dissoluzione personale. La pena è il tentativo di sopravvivere ai rimpianti che Maria cerca di evitare nella sua nuova collocazione: “Mi sforzo di vivere nel presente e di tenere lo sguardo fisso al colibrì. Non vedo nessuno di quelli che conoscevo un tempo, ma del resto me ne importa pochissimo di un sacco di persone. Voglio dire, forse avevo tutti gli assi nella manica, ma a che gioco giocavo?”. La partita è truccata ed era chiaro fin dall’inizio: Prendila così è un romanzo doloroso perché Joan Didion è inflessibile nella lettura delle deformazioni dello star system e lucidissima nel rappresentarlo con un linguaggio asciutto, spigoloso ed essenziale, che non fa sconti. L’unica attenuante concessa suona sibillina: “Fosse stato un film avrebbero anche potuto sembrare una famiglia”, ma era soltanto l’ennesimo sforzo di immaginazione, destinato ben presto a soccombere. L’unica consolazione di Maria, prima del ricovero finale, che poi è l’inizio di tutto, è il vagabondare in automobile da un highway all’altra, secondo il carattere e le geografie indefinibili di Los Angeles, ma se la strada è la salvezza, non resta molto altro.
venerdì 7 novembre 2025
martedì 4 novembre 2025
Thomas Zigal
Paul Blanchard ha ereditato una fortuna, ha una moglie e due figli adorabili e la difficoltà maggiore all’ordine del giorno è trovare la giusta la temperatura del gin. Nella sua vita è tutto perfetto o quasi, ma c’è un buco nero nei suoi trascorsi, quando se ne è andato in California per un bel po’. Il figliol prodigo lo deve ammettere: “Alla fine torniamo sempre a casa. Possiamo resistere qualche anno, magari, ma non per sempre. Ci manca quello che abbiamo qui. I favori, le corsie preferenziali, le indulgenze che vengono con il nostro nome. Gli altri sono qui per lavorare con noi”. Questi sono i motivi principali per cui New Orleans è una trappola da cui è impossibile fuggire. Non sono soltanto gli echi mai sopiti della guerra di secessione, il razzismo e la schiavitù e i loro derivati. I conflitti sono tanti e Paul Blanchard trovandosi, suo malgrado, in mezzo a tutte le intersezioni è sempre nel posto sbagliato e nel momento peggiore. A New Orleans ha soltanto l’imbarazzo della scelta. Questo ce lo rende simpatico nonostante sia un figlio di papà senza particolari doti. Un giorno sulla soglia della sua bella magione gli si presenta Mark Morvant, un amico di gioventù, ma anche “quello che sa dove sono sepolti tutti i cadaveri” e gli chiede non solo di ricambiare un antico e pesantissimo favore, ma di intercedere presso la White League perché sostenga la sua candidatura a governatore della Louisiana. Do ut des, senza via di scampo. La politica e la corruzione sono “business as usual”, e non soltanto a New Orleans dove il dilemma del ricatto dura da anni, ma nella perentoria richiesta c’è un taglio nuovo e diverso. La White League è un’organizzazione occulta esistita veramente ma di cui si sono perse le tracce. Protagonista tra l’altro di una leggendaria insurrezione su Canal Street, imponeva gli interessi bianchi e altolocati con metodi efferati e brutali. Confuso e perplesso più del solito, Paul Blanchard confessa: “Non riuscivo a credere nell’invisibile, anche se stavo cominciando a capire che forze invisibili governavano il mondo molto più di quanto avessi mai immaginato”. Lì si apre un vaso di Pandora che attraversa più generazioni: un popolo di ombre che si alimenta di sigari e scotch in circoli ristretti e privatissimi che incidono non poco sulla vita pubblica, ma che, come nel caso della White League, hanno in catalogo anche linciaggi, rivolte e omicidi. Il prezzo dello status quo. Per Paul Blanchard e per chi lo segue è un crescendo inarrestabile: Thomas Zigal riesce a rendere benissimo il ritmo rocambolesco, spesso condito con una punta di salace ironia, e a tratti persino comico, con dialoghi stringenti e un continuo richiamo alle caratteristiche e alle tradizioni della Big Easy. Conosce ed esalta le battute, lo slang, la topografia e l’anima di ogni vicolo: ha un senso del dettaglio scrupoloso e nello stesso tempo riesce ad avere uno sguardo panoramico capace di abbracciare interi quartieri fino al carcere di Angola. New Orleans è uno state of mind: la violenza e il disordine sono considerati parti integranti del mood cittadino, come il clima, il cibo e soprattutto il Mardi Gras, da cui non si può prescindere e che costituiscono elementi portanti della storia. Hanno il potere di determinare la trama, al di là delle peripezie dell’ineffabile Paul Blanchard e per estensione della sua famiglia. The White League è un’apologia di New Orleans: la città è la vera protagonista del romanzo (grazie al meticoloso lavoro di traduzione e di annotazione di Nicola Manuppelli) e gli intrighi e i segreti, l’attrito infinito e irrisolto tra presente e passato, persino nei risvolti architettonici, sono raccontati con le cadenze travolgenti di un thriller, ma con la coscienza di un’osservazione antropologica. Con la benedizione di Tennessee Williams e Truman Capote, citati en passant, The White League celebra Niu Orlinz in grande stile, nel bene e nel male, concedendo il dono dell’innocenza soltanto alle donne, e si vedrà fino alla fine, nonché alla musica che scorre alla grande con Little Richard, i Neville Brothers, Muddy Waters, Louis Armstrong, Randy Newman con Louisiana 1927, Johnny Adams, Professor Longhair, James Booker, Clarence Gatemouth Brown, Walter Wolfman Washington, Irma Thomas e la Bobby Blue Band con Turn On Your Love Light e Somewhere Between Right and Wrong. Roba di gran classe.
lunedì 27 ottobre 2025
Tom Wolfe
In uno degli stralci più coloriti che vengono riproposti in La baby aerodinamica kolor karamella, Tom Wolfe racconta con disinvoltura la storia di un’opera di Walter de Maria, chiamata Il ritratto di Dorian Gray. Con tutto il rispetto per Oscar Wilde, il furto del titolo ha un senso perché si tratta solo di una lastra d’argento che si ossida e quindi muta nel corso del tempo. La sua storia è al centro del demi monde di New York, con mostre, vernissage, inaugurazioni, cocktail party e il sabato sera tra Jasper Johns o Mark Rothko, ma Tom Wolfe ci arriva alla fine, partendo dalle coste californiane dove imperversano surf, hot-rod e rock’n’roll. La “segregazione generazionale” cominciata con l’invenzione della gioventù nel dopoguerra si impone con la customizzazione delle carrozzerie perché “tra i giovani l’automobile è diventata un simbolo, e in parte il mezzo fisico, del trionfo sulle restrizioni imposte dalla famiglia e dalla comunità”. Tom Wolfe indaga le innovazioni meccaniche come le follie dei demolition derby e soprattutto la deviazione delle forme, dei colori e dei design che ha urtato l’egemonia dei profili dell’industria di Detroit. Sull’onda delle creazioni giovanili, Tom Wolfe affronta anche Murray the K e il suo legame con i Beatles, “il più grosso fenomeno di musica popolare mai esistito”, l’importanza delle radio nella diffusione e nella percezione della cultura, la figura di Phil Spector e le sue produzioni fino ai tumulti di Watts. È tutta un’altra era vista su più dimensioni: le considerazioni di Tom Wolfe sono sempre belle appuntite, lo stile è tranchant e coinvolgente, l’attenzione per i dettagli e i costumi ha una teatralità effervescente, ma a una lettura più attenta, è soltanto un diversivo per mascherare uno sguardo molto più profondo. Ben presto la vena caustica di Tom Wolfe rivolge le sue attenzioni a New York e secondo il suo punto di vista, la città “non fa che tenersi aggrappata a questa vecchia, feudale e patrimoniale idea delle gerarchie sociali, del farsi vedere, dell’incontrare la gente giusta e via dicendo”. Mecenati e artisti, commensali e faccendieri, portieri e altre apparizioni fugaci sono all’ordine del giorno e della notte: New York è fatta di ombre e “qualche passo falso, qualche delusione, qualche risatina alle spalle, e vuoi tagliarti la gola per questo?”. Tom Wolfe è una guida imprevedibile, capace di tenere banco senza sosta, lasciandosi trasportare persino da una brillante leggerezza quando dice: “Guardatevi intorno, tanto per cominciare questa città è un manicomio, sbaglio? Perciò, non lasciatevi prendere dalla frenesia. Rilassatevi. Godetevela”. Certo, intanto Il ritratto di Dorian Gray ormai annerito e graffiato dagli anni oggi vale più di mezzo milione di dollari. Testimone oculare di tanti eccessi e divagazioni, Tom Wolfe a New York si concede un’avventura con gli automatismi all’Hilton, frutto di una digressione letteraria che pare infinita, e poi, nell’alternarsi tra la costa occidentale e orientale, ecco il gran finale con il ritorno in California con l’analisi ravvicinata delle protesi di silicone, acuta ed esilarante. Nel frattempo ci sono ampie parentesi dedicate a Marshall McLuhan (e a Freud) e a Hugh Hefner e al suo impero di apparenze, così, senza alcuna soluzione di continuità. Se a prima vista La baby aerodinamica kolor karamella è un insieme difficile da decifrare, il collage che va formandosi sottolinea, nel caso ce ne fosse bisogno, che “la vita americana si va omogeneizzando sempre più al suo centro di potere”. Ancora validissimo.
martedì 21 ottobre 2025
T. C. Boyle
Fermata per una piccola infrazione stradale in un’area suburbana della California, Alex Halter viene arrestata perché a suo carico figurano una sfilza di reati commessi in più stati americani. Lei, un’innocente insegnante, comprende fin da subito che deve aver subito il furto delle generalità, ma viene considerata fuorilegge a sua volta perché il suo doppelgänger ha una serie di precedenti sterminata e quindi le tocca tutto l’iter giudiziario, burocratico e penale (passaggio in carcere compreso). È un incubo, aggravato dal fatto che Alex Halter è sorda, un handicap che T. C. Boyle rende inquietante così come è meticoloso fino all’ossessione nel descrivere lo scorrere del tempo dentro i contorni di una situazione impossibile da decifrare. Quando Alex viene riconosciuta vittima del raggiro, non ha più fiducia nelle istituzioni, e con il fidanzato, Bridger, si mette alla caccia del nemico, che si rivelerà essere William Peck Wilson alias Frank Calabrese. Peck è furbo, infido, cinico e irritante, ma ha qualcosa che ce lo rende simpatico: i gusti da gourmet, le difficoltà nelle relazioni, l’impazienza. È un personaggio che vive costantemente “in bilico su una capocchia di spillo” e quando trova uno sprazzo di serenità riesce ancora a distinguere “uno di quei momenti in cui il mondo ti si spalanca davanti, in cui ogni piccola scocciatura quotidiana sembra scomparire e il pianeta si dispone sul proprio asse, perfettamente in equilibrio, precisamente ora, davanti a te”. Non può durare e in qualche modo lo percepisce anche lui: l’identità è una partita complessa, il furto ancora di più perché mentire richiede controllo assoluto dato che “tutto quanto era solo una grande esibizione” ed è indispensabile non incappare in equivoci per permettere agli alias di prelevare, spendere, acquistare in continuazione. Quando le Identità rubate gli si ritorcono contro e mettono a rischio il ménage sopra le righe con Natalia e la figlia Madison, non resta che la fuga e dalla metà in poi il romanzo diventa un inseguimento attraverso l’America e si converte in un road movie. Il furto dell’identità si trasforma nell’intersezione delle vite, di tutte le vite, quelle vere e quelle false, quelle limitate di Alex Halter e Bridger Martin (alla fine ruba le identità di entrambi) e quelle senza limiti apparenti di Peck e Natalia che si scontrano e infine si sovrappongono. La trama si avvolge su se stessa e si complica da sola perché T. C. Boyle affida tutti i movimenti e ogni sequenza alle scelte dei personaggi, senza risparmiargli nulla, mettendoli sulla strada, e descrivendo dall’alto, e in prospettiva, quello che gli succede. Identità rubate è un trompe-l’œil che ha il ritmo feroce di un rocambolesco thriller, ma tocca un nervo scoperto e nelle pieghe della storia, con piccolo artificio letterario, infila anche la gestazione di un altro romanzo di T. C. Boyle, Il ragazzo selvaggio, ancora più concentrato sui temi dell’identità e della diversità, affidandolo alle cure di Alex Halter, quella vera. Notevole.
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