Irriverente e visionario come non mai, Tom Robbins costruisce un’articolata allegoria del potere e una parodia senza freni della ricerca di una vita per comprendere “il significato delle cose”. L’oggetto dell’estremo desiderio che coinvolge ogni protagonista di Profumo di Jitterburg è un profumo portentoso, rincorso da una variopinta umanità che va da una cameriera a Seattle a un immortale (o due) a Costantinopoli, da una regina di New Orleans a un uomo con una maschera da balena a Parigi, dato che “a questo mondo ci sono persone che posso indossare maschere a balena e persone che invece non possono”. La ricerca dell’essenza filtra attraverso i secoli così come negli spazi e sopra gli oceani: secondo la percezione di Tom Robbins “ci sono apertamente poche limitazioni di tempo o di spazio per i viaggi della psiche, e soltanto l’ispettore di dogana assoldato dalle nostre inibizioni pone limiti a ciò che ci si può portare dietro quando rientriamo nella quotidiana coscienza”. Le frontiere saltano subito: Kudra e Alobar, due personaggi centrali, “incerti, intrepidi, forse immortali, decisamente innamorati”, partono quando “la terra era ancora piatta e la gente sognava spesso di precipitare giù dal bordo”, passano per l’Himalaya approfondendo il Kamasutra e, in compagnia del dio Pan, vagano fino alla terra promessa, ovvero l’America. Nel frattempo passano i secoli e sull’affollatissimo palcoscenico di Profumo di Jitterburg vanno in scena Descartes, Einstein, Mary Quant, l’impero romano e il cristianesimo, l’estinzione dei dinosauri e di tutto e di più secondo l’insindacabile regola per cui “il mondo è un puzzle e la vita un cappio”. Per di più, allo spasmodico inseguimento del profumo si sovrappone l’apparizione delle barbabietole, un tubero con una sua peculiare caratteristica che, alla fine, sarà risolutoria. “L’aroma del paradosso” è il vero Profumo di Jitterburg, un romanzo caotico e scoppiettante che è un tutto: provocatorio e incongruente, ma con un suo specifico motivo, una mappa mentale che si dipana secondo progressi ineluttabili, ma anche imperscrutabili. Un ordine c’è ed è quello dello scrittore, della sua particolare percezione del mondo, capace di scompigliare le trame, quel tanto “da complicare un po’ la storia. Se a una situazione non si riesce a estrarre alcun lume, tanto vale estrarci un po’ di spasso”. Profumo di Jitterburg è un romanzo portentoso, che ribolle di comicità, erotismo, miti “che spiegano il mondo” e leggende che lo confondono. Ogni personaggio è “il re di se stesso” e, con ogni singola voce, si attorciglia attorno a una forma erudita e cosmopolita, eppure chiarissima e divertente. A volte fin troppo, e non è sempre agevole seguire il filo del discorso, ammesso che ce ne sia uno, ma il ritmo è pazzesco e coinvolgente. Digressione dopo digressione, Tom Robbins crea universi di parole, ben consapevole che “forse la cosa più terribile (o meravigliosa) che possa succedere a una giovane persona piena di immaginazione, a parte la maledizione (o benedizione) dell’immaginazione in sé, è venire a contatto, senza esservi preparata, con la vita al di fuori della propria sfera, l’improvvisa rivelazione che c’è per l’appunto qualcosa là fuori”. Il trucco è precipitare in libertà dentro una voragine di storie che si accavallano una sopra l’altra: Profumo di Jitterburg è un’odissea pan-aromatica e psichedelica nel senso più esteso del termine, con un gran finale nel carnevale del Mardi Gras, tra jambalaya e champagne, e non poteva esserci destinazione più accurata.
mercoledì 20 novembre 2024
lunedì 18 novembre 2024
James Lee Burke
Dovrebbe ormai essere evidente a tutti che Clete Purcel e Dave Robicheaux soffrono di disturbo da stress post-traumatico, maturato tanto in Vietnam quanto nelle strade di New Orleans. La città non aiuta e lo spiegava benissimo Tom Robbins quando dice che appena ci arrivi “qualcosa di bagnato e di scuro ti balza addosso e comincia a dimenarsi come un randagio in calore uscito dalle paludi”. L’unica possibilità di disfarsi di questo odore è adeguarsi, e mangiarlo e così si spiegano i numerosi pasti quotidiani di Clete e Dave, che sono poi i momenti principali in cui si ritrovano a confrontarsi con i rispettivi fantasmi. In questa osmosi di ruoli con Streak, Clete pare più riflessivo, anche se si dedica alla distruzione con il consueto tatto, compreso l’utilizzo, non proprio a norma, di una betoneria. È solo un episodio, il più delle volte va dispensando un’inedita saggezza: “Vi spiego. Disorienta il tuo nemico. Fai l’inaspettato. Se non funziona, non fare nulla. Lascia che il silenzio sia la tua arma. Il punto è confondere il nemico e fargli rivolgere le energie contro se stesso. Non è difficile. Il colpo migliore nella boxe è quello che eviti”. I tentennamenti di uno e i black-out dell’altro li conducono a incrociare uno sciame di forze maligne che coltivano ancora l’oppressione, lo sfruttamento, la violenza come strumento di un potere assoluto e feroce, nascosto dietro paraventi di affettata cortesia e antico galateo. I Bobbsey Twins si trovano a combattere tra Hollywood e il Ku Klux Klan (o qualcosa di peggio) e la vera lotta, mostri, allucinazioni e veleni a parte, è contro l’ipocrisia dato che “la Louisiana meridionale è il paradiso, a patto che si chiuda un occhio e non ci si soffermi sulla corruzione, che qui è uno stile di vita”. Il nemico è sfuggente e pericoloso. Non manca la femme fatale di turno, ma sono altre le figure femminili che si impongono per il coraggio, la forza, la determinazione, a partire da Giovanna D’Arco, le cui apparizioni punteggiano tutta la trama di Clete. L’elemento soprannaturale e/o fantastico, non insolito nei romanzi di James Lee Burke, distingue in modo particolare la visione di Clete Purcel che è nella stessa prospettiva di Streak, solo che cambia l’approccio. Però, dai e dai, i due prima si completano e poi si sovrappongono e così Clete è il riflesso naturale di New Iberia Blues o Una cattedrale privata, una celebrazione infinita della saga e la doverosa affermazione di Clete Purcel, un personaggio che deve essere sfuggito di mano a James Lee Burke e che si concede più di una confidenza (e figurarsi se non può permettersela). Clete Purcel si rivolge a tutti, anche ai lettori trascinandoli in un gorgo ipnotico e avvincente. Business al usual, d’accordo, ma come i piatti saporiti e succulenti della cucina sudista, c’è molto da gustare: la vista dello scenario resta uguale per entrambi e New Orleans e gli altri distretti della Louisiana sono parte di un ecosistema fragile e unico, sospeso tra la terra e l’oceano che hanno un loro punto di incontro nel bayou. Albe e tramonti nelle sfumature variopinte della luce contribuiscono in modo determinante alle suggestioni del romanzo e ipnotizzano Clete e Dave non meno di James Lee Burke. Poi, “è solo rock’n’roll. Tutti arrivano alla stessa destinazione. L’importante è come ci si arriva”. Si era capito nella dedica a Nils Lofgren, dalla citazione illuminante di Light My Fire dei Doors, a quella, non meno importante, di Promised Land di Chuck Berry, ma l’apoteosi è riservata a Bob Seger che, en passant, viene definito il più “grande filosofo americano”. Mai avuto dubbi, ma è bello vederlo scritto nero su bianco.
lunedì 11 novembre 2024
Edward Bunker
Come scrive James Lee Burke, “il punto non è la reclusione; è l’umiliazione. È la perdita instantanea dell’identità e della dignità”. La rassegnazione della vita in carcere è tutta lì: il rapporto con i secondini e con la burocrazia, le gerarchie dentro le mura, le divisioni e i conflitti razziali, l’idea fissa dell’evasione, i rapporti alterati dalla paranoia, e comunicazioni attraverso le tubature dei cessi, l’equilibrio (si fa per dire) tra punizioni e concessioni, le risse e le rivolte determinano la pena quotidiana di Animal Factory, ovvero San Quentin, e rappresentano un cupo capolinea senza alcuna umanità, solo giorni che si consumano nel nulla. Ronald Decker, giovane e inesperto spacciatore, al suo debutto nel sistema carcerario, trova una sponda inaspettata e fortunosa in Earl Copen, un veterano inserito alla perfezione nelle dinamiche della galera. Il primo incontro avviene nel corso di uno sciopero che mette subito in risalto le tensioni che vedono tra scontrarsi tra loro masse di detenuti poi destinati a soccombere con l’intervento delle guardie che sparano con tutto quello che hanno a disposizione. Nessuna pietà: Animal Factory (nella traduzione di Fabio Zucchella) è governato da forme di violenza che si propagano in ogni direzione, spesso con l’aggravante sessuale. Ron è una preda facile della “definitiva mancanza di significato della vita in un universo differente” e l’amicizia in carcere può essere equivoca, come qualsiasi altra cosa. Ogni aspetto legato ai rapporti umani è compresso in un’infinita paranoia e “dopo un po’ impazzisci e fai cose che non dovresti fare”. Earl Copen conosce bene le dinamiche, e sa che “tutto quello che ha un uomo in prigione è la reputazione con i compagni” ma per qualche motivo, più di tutti il bisogno di covare ancora un briciolo di speranza, si avvicina a Ronald Decker e lo aiuta a sopravvivere nel contorto recinto di San Quentin che “era qualcosa in più di un luogo murato; era un mondo alieno di valori distorti, governato da un codice di violenza”. Non esiste definizione più accurata di questa. L’ambiguità, l’altra faccia della paranoia, è costante. Gli accoltellamenti dettano cicli di guerra e pace, domina il razzismo “che andava al di là del razzismo per trasformarsi in ossessione da entrambe le parti”. Mentre le residue aspettative sono affidate alle pronunce di un giudice, di una commissione o di un ufficiale, ma il più delle volte gli appelli finiscono nei vicoli ciechi della burocrazia, i detenuti si industriano in traffici e intrighi ma “è già un lavoro a tempo pieno rimanere vivi”. Sfiancati dall’isolamento, Earl e Ron decidono di evadere, aiutati da mezza prigione e da lì in poi il destino resta un’incognita. Attorno a loro due, Edward Bunker in Animal Factory scrive un diario dal carcere episodico e graffiante che non fa sconti in nessuna direzione. La brutalità è condivisa dal potere così come dai condannati. Non c’è tregua e anche uno come Earl, che vanta esperienza e stile, non è mai al sicuro e se “la routine è la chiave per sopravvivere alla prigione”, è anche il tedio che affossa ogni ambizione. La conoscenza di Edward Bunker della materia carceraria è minuziosa e dovuta all’esperienza, quindi di prima mano, comprese le fragili forme di amicizia e le difficoltà nello stabilire rapporti di fiducia. L’interno della prigione è visto come se fosse sotto una lente di un microscopio: i rapporti di forza sono letti attraverso un linguaggio scarno e spontaneo che segue le ombre ben oltre oltre le mura di San Quentin o Alcatraz o qualsiasi altro penitenziario. Fuori, secondo uno che “si è fatto quarantasei calendari”, Charley Fitz, “non è cambiato un accidente di niente. Forse si muovono un po’ più in fretta, ma è sempre la solita merda”. Durissimo, ma sincero.
lunedì 14 ottobre 2024
Kurt Vonnegut
In Barbablù, Kurt Vonnegut tocca un tasto delicato, quello dell’arte moderna, e lo fa con la consueta e sperimentata ironia, ma anche con cognizione di causa nel descrivere le traiettorie dall’ispirazione artistica al mercato, con tutte le deviazioni e le intersezioni possibili e immaginabili in mezzo. Barbablù, metafora ideale per mettere a fuoco le idiosincrasie verso il mondo femminile del bizzarro protagonista, si snoda a modo suo, un po’ attingendo al passato, un po’ volgendosi al presente. Non ha proprio uno schema preciso, se non il libero fluttuare dell’autobiografia di Rabo Karakebian che non perde tempo in convenevoli e si dichiara ben presto così: “Il problema sono io. Io non sono un uomo presentabile”. Esatto, e seguirlo è un po’ una sfida perché si lascia trascinare nelle situazioni più improbabili e curiose e qui entrano in scena le donne: Dorothy, la prima moglie, Edith Taft Fairbanks (dal secondo e più fortunato matrimonio, con cui ha ereditato una fortuna, compresa la magione sull’oceano), Circe Berman alias Polly Madison, scrittrice che arriva senza preavviso e gli stravolge la vita, Allison White, la cuoca (nonché la figlia). Hanno tutte qualcosa da ridire, sul suo conto, forse anche perché il suo cuore è rimasto invischiato nella relazione con Marylee, concubina di Dan Gregory, “il massimo artista vivente”, a sua volta pittore, illustratore e mentore. Con lei, la vicenda impone una serie di balzi nel passato (Dan Gregory e il suo assistente Fred Jones uccisi in Egitto con uniformi italiane, tutta un’altra storia) e rimbalzi in avanti (Marylee eredita un intero palazzo a Firenze), ricordando che “era un’epoca di imperi, quella. E anche questa lo è, neanche tanto ben camuffata”. La trama prende forma con il discorso e i ricordi di Rabo Karakebian la cui origine armena dissemina contatti e riferimenti per tutto il globo. È un bravissimo disegnatore, ma non è un pittore. Nel corso della seconda guerra mondiale è stato un esperto di mimetismo, una dote che torna utile all’istinto di sopravvivenza. È attorniato da una danza di fantasmi che comprende Jackson Pollock, Mark Rothko e Willem De Kooning, ma anche mecenati, scrittori, fattorini, critici & mercanti, spie, insegnanti, giardinieri, parenti. Gente che sembra avere una stazione radio in testa e che nelle loro gesta ricordano che “la più diffusa malattia d’America è la solitudine”. Gli uomini sono tutti un po’ fuori strada: Dan Gregory e Fred Jones a parte, bisogna contare almeno Terry Kitchen e Paul Slazinger (amico e scrittore in crisi profonda) che ha la spontaneità di ammettere: “Io ho tentato e ho fallito, quindi ho fatto piazza pulita: adesso tocca a voi”. Sono tutti fotogrammi in movimento perché “era ed è tuttora facile, per buona parte degli americani, recarsi da qualche altra parte e ricominciare daccapo” e Vonnegut scalpitante, amaro e ironico nello stesso tempo, cerca di mettere un po’ di ordine nel caos di Barbablù a modo suo, ovvero rendendolo ancora più eccentrico e interessante. Le iperboli e le digressioni a raffica lo trasformano un rompicapo, una suite jazzistica, un’irriverente cronaca dal mondo dell’arte, dove il sottinteso è che, a confronto di musica e pittura, in particolare nella declinazione astratta ed espressionista, la scrittura, fra tutte le forme d’espressione, è la più faticosa, solitaria e silenziosa, ma è anche l’unica che concede il diritto della parola e del dubbio e permette a Paul Slazinger di dire, che “la condizione umana può riassumersi in un’unica parola. E questa parola è: imbarazzo”. Barbablù è un libro per esperti di Vonnegut, che è sempre lucido, ha un metodo nella sua follia e il più delle volte esibisce il dono della chiarezza senza patemi e con un sorriso contagioso. In Barbablù però è necessario assecondarlo da vicino e non ci sono subordinate: solo il ritmo incessante del geniale e spumeggiante sproloquio di un clamoroso outsider, capace di tenere nascoste le sue opere migliori in un patataio.
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