Non si uccidono così anche i cavalli? La vita dei musicisti in tour, e pure una volta tornati a casa, è una fatica di Sisifo per un piccolo momento di piacere, per il gusto di suonare una chitarra pregiata, per il mistero gaudioso del songwriting. Willy Vlautin, che conosce fin troppo bene l’argomento, avendolo vissuto in prima persona, parte proprio da lì, dalle dinamiche che portano a vivere una passione nonostante le difficoltà, i ritmi frenetici, le attese e le interminabili ore trascorse in viaggio tra un concerto e l’altro. La sua intima conoscenza della materia infonde al romanzo un aroma speciale, come se Il cavallo fosse l’occasione per fare i conti con l’alternarsi dei miraggi e della dura realtà e del “ritrovarsi spesso in posti sperduti”. Willy Vlautin concede quel tanto che basta di dettagli autobiografici ad Al Ward, che passa da una band all’altra, affrontando cantanti e canzoni, palchi e contratti, alcol (troppo) e trasferte estenuanti, successi (pochi) e fallimenti. Spesso pare aggrapparsi alla chitarra, l’inizio e la fine di tutto, e a quei rari momenti in cui si sente nel posto giusto e pensa che “è bello quando si lavora tutti insieme e fai una canzone che ti piace. Il rumore, il suono, è una bella sensazione. Ti entra dentro e forse, in un certo senso, tu entri dentro quel suono. Hai la possibilità di scomparire di tutto, e alla fine, se la gente applaude, be’, è una cosa in più”. Ecco, poi giorni scorrono inesorabili, la musica si rivela insufficiente a rispondere a tutti i bisogni e le cronache dal music business sono le stesse raccontate da Rick Bass in Nashville Chrome, con l’aggiunta di qualche paillettes in più perché “se vuoi diventare famoso, devi vestirti come se stessi andando in qualche posto fantastico. Perché se lo fai, la gente penserà che stai andando in un posto fantastico e molto probabilmente, se continui così, lo farai per davvero”. Questo è un po’ il punto di svolta più evidente, insieme ai tentativi di trovare una collocazione che resta una prova insormontabile perché come dice l’amico Lonnie “ci vuole tanta energia per cambiare chi sei”, e a volte non basta mai. Il cavallo è costellato di abbandoni e separazioni, cuori spezzati e matrimoni falliti, come se fosse un’estenuante collezione di ballate country & western. I personaggi sono tutti “danneggiati” e Al, in particolare, è diviso tra una carriera di chitarrista e songwriter e una solitudine incalzante, che lo lascia più di una volta disarmato. Anche se è costretto ad avere un lavoro normale in una tavola calda, Al continua a scrivere come se fosse una terapia: i titoli delle canzoni, che fluttuano a blocchi, sono un racconto parallelo e contiguo che Il cavallo ostenta senza particolari spiegazioni aggiuntive. Non servono perché la storia che Willy Vlautin incastona pezzo dopo pezzo è tutta lì, nelle frasi colte al volo, negli appunti presi sui taccuini, negli accordi rubati qui e là. Quando ormai è giunto al capolinea, Al si ritrova solo in una località impervia, prigioniero dei ricordi e dei rimpianti, con un menù ridotto a caffè, zuppa Campbell e tequila, con la sua Monte Carlo che non vuole nemmeno saperne di accendersi e il freddo del Nevada che lo circonda, gli appare un cavallo stremato quanto lui. L’animale è refrattario a tutti i suoi tentativi di avvicinarlo, abbeverarlo e sfamarlo. Qualcosa non va e Al rimane lì incerto e incapace di decidere se il cavallo sia un’allucinazione compresa nel turbinio dei riverberi del passato o un potente richiamo offerto dalla vita vera, là fuori. La chitarra e le parole non possono molto contro la fame, il gelo e l’immobilità del cavallo. In effetti, contro i coyote che lo assediano, Al deve ricorrere al fucile, ma non serve a granché. La situazione di stallo è un’immagine potente al pari di tutto il romanzo a cui Willy Vlautin dona una scrittura asciutta, rarefatta e ipnotica capace di convincervi, una volta di più, nelle qualità salvifiche del songwriting e se non avete mai provato a scrivere una canzone, dopo aver letto Il cavallo, sarà difficile resistere alla tentazione.
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