Fa caldo nei racconti di Bukowski: fuori vince l’afa e dentro invece è freddo e c’è comunque qualcosa che non va. Le ruote buche (tre, compresa quella di scorta), il cesso intasato, gli animali che rovinano la siepe, la televisione che ci mette una vita ad accendersi, i cavalli che non corrono, il bicchiere mezzo vuoto più che mezzo pieno sono quei dettagli che distinguono una vita “sempre fuori posto”, e questo è quanto ricorre in continuazione nelle Confessioni di un codardo. È un’antologia di short story dell’ultimo periodo di Bukowski che pur nella sua brevità ne condensa tutte le ossessioni e le deviazioni, le abitudini. In Un nickel, spicca nel parterre delle corse (una seconda casa, se non proprio la prima) una femme fatale, in cerca della soffiata giusta. L’omaggio alla sua bellezza di Henry alias Bukowski è incredibile: “Mi arrivò il suo profumo e immaginai cascate e foreste e mobili soffici come nubi, immaginai gli avanzi di selvaggina a dei bellissimi cani, e di non puntare più la sveglia”. Un terzo incomodo appare all’improvviso, e quando il conflitto, che in ogni caso è latente, esplode sono fuochi d’artificio. In modi diversi succede, tra l’altro, in Nascondiglio, Riscatto e La star dove prende forma tutto un demi-monde di umanissimi fallimenti e altrettanto prosaiche fantasie. Non di rado i racconti approdano ad atmosfere oniriche e surreali: quello di Bukowski è Un universo poco accomodante che si tinge di sfumature variopinte, un po’ con le tinte della commedia, un po’ con quelle del dramma, unite da un filo di perfida ironia. Tra le Confessioni di un codardo si trova anche un’ammissione importante, infilata tra le pieghe di Che fine ha fatto quell’adorabile ragazza sorridente vestita di percalle?, quando l’Harry di turno in un momento di sincerità riconosce che “naturalmente era da codardi sforzarsi di dimenticare l’incomprensibile, però necessario”. Qui c’è un po’ tutta la filosofia dello stesso Bukowski che si accosta e si identifica nei suoi personaggi, che sono degli outsider assoluti, ma si rivelano capaci di coltivare ogni piccola opzione per la sopravvivenza, sperando persino nella poesia, inseguendo illusioni improprie e miraggi nelle pieghe della folle architettura di Los Angeles, che rimane lo scenario preferito, se non proprio l’unico. Il più delle volte, come succede in Vita da barbone, però: “le cose vanno avanti. Come le pulci, e lo sciroppo sulle frittelle”, e non ci sono molte aspettative. Questo lo si capisce anche leggendo Il suicida o La mia pazzia dove Bukowski prova a giocare la carta di una lungimirante saggezza, quando suggerisce di “non giocare con la follia, la follia non paga”. A dire il vero, tutta la sua esistenza dimostrerebbe il contrario, e restano ancora il pranzo e le chiacchiere di Morte nel pomeriggio, un esplicito omaggio a Hemingway, e 191, nonché l’accorato appello ai colleghi del futuro e all’evoluzione della specie: “E se fra voi c’è qualcuno che si sente abbastanza matto da voler diventare scrittore, gli consiglio va’ avanti, sputa in un occhio al sole, schiaccia quei tasti, è la migliore pazzia che possa esserci, i secoli chiedono aiuto, la specie aspira spasmodicamente alla luce, e all’azzardo, e alle risate. Regalateglieli. Ci sono abbastanza parole per tutti”. Una bella eredità, tutto sommato.
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