Lo scrittore in seria difficoltà, se non in pericolo di vita, è un soggetto che ricorre una tantum nella bibliografia di Stephen King, basti pensare ai protagonisti di Misery e di Shining. In Mucchio d’ossa, Mike Noonan è un rappresentante della categoria particolarmente tormentato: sua moglie è morta all’improvviso, l’ispirazione si è inaridita rapidamente e si ritrova incastrato tra mura stregate. Quando decide di trasferirsi nella casa di villeggiatura sul lago, in un’area tipica del New England, è costretto a misurarsi con “la singolare impollinazione incrociata tra sogni e fatti del mondo reale”. Dalla classica tavola calda ai sentieri lungo le rive, il territorio yankee di Mucchio d’ossa circoscrive una comunità provinciale e ristretta, in apparenza cordiale e premurosa, ma che nelle pieghe della storia locale nasconde un segreto atroce. Stephen King sa che “uno scrittore è un uomo che ha insegnato alla sua mente a comportarsi male” (e sembra quasi scusarsi perché lo ribadisce in continuazione) e Mike Noonan avverte fin dall’inizio che qualcosa nell’equilibrio tra l’immaginazione e la vita normale è andato perduto: “Ricordo invece una sensazione che avevo già avuto laggiù, specialmente quando percorrevo quella strada da solo. Era la sensazione che la realtà fosse sottile. Io credo che sia sottile, sapete, sottile come il ghiaccio sul lago dopo il disgelo, e noi riempiamo la nostra vita di rumore e luce e azioni per nascondere a noi stessi quella sottigliezza”. Superata quella linea, basta l’incontro fortuito di Mike Noonan con una bambina e sua madre per far collassare uno dopo l’altro gli strati di cliché di cui è composto Mucchio d’ossa: una storia d’amore (anche un paio, giusto per non farsi mancare niente), una ghost story (ma qui ad un certo punto diventano tutti fantasmi), uno spruzzata di legal thriller (con tanto di omaggio a John Grisham), persino un po’ di etnomusicologia nel raccontare le gesta di una sorta di Robert Johnson al femminile che sarà via via più importante ai fini della trama, che è bella intricata, per non dire contorta. Stephen King preso dall’entusiasmo e/o ipnotizzato dalle sue stesse creazioni non risparmia e ci mette un po’ di tutto per ridefinire i confini della realtà e dei mondi paralleli che Mike Noonan, inevitabilmente, andrà a sollecitare. Le presenze, la telepatia, l’energia psichica, gli incubi, il sonnambulismo, i poltergeist, l’antropomorfismo che crea uomini, donne e mostri dietro ogni ramo di betulla rendono Mucchio d’ossa un groviglio eccessivo e prolisso, anche se la storia resta avvincente tra blues, spettri, avvocati e fuochi d’artificio assortiti, inclusi i Beach Boys quando cantano Don’t Worry Baby. Stephen King a volte riesce a essere trascinante, a volte no: la capacità di creare empatia per i personaggi (ce ne sono un bel po’, reali e non) è intatta ed efficace, ma ci sono un bel po’ di ripetizioni, come se cercasse di convincerci con la forza. Lo stesso vale per l’eccesso di teatralità, mettiamola così, nella parte conclusiva: l’apocalisse finale, con tanto di tempesta, ponte pericolante, battaglia all’ultimo sangue e colpi di scena a raffica, sembra destinata ad avvalorare, a furia di effetti speciali, di aver visto qualcosa che i più non riescono a vedere. Questa è la natura del suo gioco e lo confessa attraverso Mike Noonan quando dice che gli “interessa sapere quel tanto che basta per poter mentire in maniera colorita”. Un po’ di confusione è da mettere in conto e Mucchio d’ossa è proprio come un hamburger imbottito di tutto, gustoso e abbondante, ma si fa fatica a capire che sapore ha.
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