Ci sono guerre e guerre: l’Afghanistan e l’Iraq, e poi finite (male) quelle, resta comunque la Colombia, un luogo dove la vita è appesa a un nonnulla. La condizione a vario titolo di Valencia e del padre, Juan Pablo, di Mason, Diego, Lisette, Jefferson, Abel, Luisa, Alma, Janvier anche nel contesto di Una buona guerra è quella che Phil Klay identifica così fin dall’incipit: “La gente pensa che una persona sia ciò che vedi andarsene in giro in carne e ossa e sangue, ma è un’idiozia. Carne e ossa e sangue esistono, ma esistere non significa vivere, e carne e ossa e sangue da soli non fanno una persona. Una persona è ciò che succede quando c’è una famiglia, e un paese, un posto dove sanno chi sei. Dove tutti quelli che ti conoscono tengono in mano un piccolo specchio invisibile, e in ciascuno specchio, tenuto in mano da familiari, amici e nemici, appare un riflesso diverso”. Lo schema essenziale, che prevede la convergenza dei protagonisti da posizioni molto distanti, e per certi versi incongruenti, non è di sicuro una novità, però è funzionale a inquadrare e a dipanare la complessità della trama di Una buona guerra. La costruzione di Phil Klay è per tre quarti meticolosa e dettagliatissima, per poi precipitare con il susseguirsi degli eventi nella parte conclusiva, che subisce un’improvvisa (per quanto non imprevedibile) accelerazione, compreso il lungo epilogo finale. L’articolazione tiene conto delle leve politiche, economiche, militari, criminali e di tutti gli interventi armati in difesa di interessi più o meno legittimi. Dopo l’11/9 è tutto giustificabile e sono tutti in cerca di Una buona guerra da poter raccontare. La Colombia e per estensione gran parte del Sud America hanno sufficienti sfumature per un’intera enciclopedia e provare a definirle è già un’impresa. Phil Klay conosce bene il sovrapporsi di finalità tra nazioni, governi, eserciti e segue con scrupolo gli eventi che provocano i suoi personaggi. È una reazione a catena e riesce a rendere un’idea complessiva grazie a un immane lavoro di ricerca che l’ha portato anche a discernere gli interessi e le ingerenze degli Stati Uniti sul campo. In questo senso Phil Klay sfrutta l’esperienza personale già narrata nei racconti di Fine missione, ma Una buona guerra sviluppa tutta una trama molto più ambiziosa. Quando i diversi protagonisti vengono infine a contatto, le forze che hanno richiamato, smosso o soltanto evocato si mostrano con tutta la loro violenza e così rivelano i destini a cui vanno incontro. Lo sforzo è ripagato: La buona guerra ci costringe a guardare dove di solito non è né lecito né indolore. L’organizzazione di Phil Klay è diretta a evidenziare la fittissima ragnatela di connessioni, convivenze e congiunture tra entità diverse: militari e paramilitari, narcos e guerriglieri, governanti locali e nazionali, giornalisti, missionari, tutti visti con estrema precisione alle prese con i propri obiettivi. Si va dal minimo della sopravvivenza quotidiana al controllo geopolitico di parti del territorio o di un’intera nazione. Ogni mezzo è consentito: dall’efferatezza delle torture alle minacce più o meno velate, dalla corruzione (endemica) ad armi sempre più sofisticate e micidiali, da strumenti tecnologici e informatici all’avanguardia a rituali ancestrali. Il patchwork, che pare inestricabile, è assemblato da Phil Klay con grande lucidità, senza alcun moralismo, e scorre nonostante l’urticante realtà che racconta e su cui è basato: l’intricato tessuto che sottintende ogni guerra, che, buona o no, resta l’espressione prima e ultima della volontà del potere di tutelarsi e procrastinare lo status quo, costi quel che costi. Impegnativo, ma necessario.
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