Alle radici di Bull Mountain, c’è un ragazzo cresciuto in fretta, che ha imparato a combattere per un padrone molto potente, nella fattispecie Gareth Burroughs. L’iniziatore della stirpe l’ha accolto nella sua congrega e Nails alias Nelson McKenna è diventato più di un amico per il figlio Clayton. Nails è menomato, ha qualche problema nei movimenti non meno che nel linguaggio, ma i suoi limiti sono la sua forza: è obbediente e preciso e, come è noto, per i Burroughs non serve altro. È un bravo soldato, solo che compie un errore, che non è un errore. Salva una ragazza, Dallas, da un tentativo di violenza, ma non è solo un salvataggio (un uomo resta a terra e non si rialza più), e Dallas non è proprio un nome del tutto vero. Avviene per una scelta, senza dubbio, ma l’impeto non calcola né i danni immediati (si tratta anche di un omicidio) né i risvolti collaterali. Nails ha agito d’istinto e pur essendo nel giusto, Gareth Burroughs non può permettersi troppe attenzioni o gesti di generosità fuori dal suo controllo e gli organizza una via d’uscita o una condanna (un po’ tutte e due). Clayton, che sta costruendo la sua casa con l’aiuto del padre, e lo conosce fin troppo bene, sente che su Nails è calata una sentenza e si muove a sua volta per aiutarlo. Cambia lo scenario. Sulle montagne riposa solo un mucchio di ossa e verso Jacksonville convergono interessi, condizioni e legami nuovi e antichi. Jacksonville non è la McFalls County: lì l’influenza dei Burroughs arriva (comunque), ma è filtrata dalla distanza e dal tempo e, più di tutto, da una motivazione improbabile. Clayton Burroughs agisce per amicizia, un termine che non è contemplato nel limitatissimo vocabolario di Bull Mountain, dove tutto è in termini di do ut des, e costringe il padre a intervenire in nome della famiglia. La famiglia non te la scegli e trattandosi dei Burroughs rimane una spada di Damocle. Saltano un po’ tutte le regole ed è come passare dal bianco e nero e vedere a colori: sul canovaccio classico di un road movie, che va da Bonnie & Clyde a Thelma & Louise, Brian Panovich crea un intricato susseguirsi di connessioni rendendo comprensibili (se non proprio accettabili) persino gli inamovibili codici di Gareth Burroughs, che resta in cima all’albero genealogico e alla catena alimentare. Quella che per Nails e Dallas doveva essere una rotta verso nuove identità e una vita diversa, si trasforma in un percorso a ostacoli tra stanze di motel, stazioni di servizio, parcheggi e tutto un catalogo di fotogrammi sfuggenti che Brian Panowich sa filtrare con un ritmo altalenante, a tratti frenetico e compulsivo, come l’abbiamo già conosciuto, altrimenti più complesso e riflessivo. L’alternarsi delle canzoni di R.E.M. (Fall On Me), Mazzy Star, (Fade to You), Nirvana (All Apologies), Soul Asylum (Runaway Train), Goo Goo Dolls, (Slide), Garth Brooks (Friends In Low Places), Tom Petty (You Wreck Me e Running Down A Dream), The Sundays (Wild Horses) è il contrappunto specifico che risalta più che in altre occasioni. È una colonna sonora particolare che inquadra il tempo non meno della geografia: qui siamo proprio all’inizio di tutta la saga, una sorta di prequel che spiega molte cose (a partire dal rapporto tra padre e figlio nei Burroughs) e, oltre a introdurre il personaggio di Nails, sposta la prospettiva dai limitati confini di Bull Mountain. Le fughe e gli inseguimenti attraverso “un paese fatto di luci al neon, cemento e scelte sbagliate” fanno risaltare una gamma di possibilità compresa l’ipotesi, dichiarata dallo stesso Brian Panowich, che possa esistere una speranza “anche negli angoli più bui del profondo sud degli Stati Uniti”. Tra i tanti spiragli lasciati aperti da Nient’altro che ossa è il più appariscente, ma non è nulla rispetto ai dubbi e agli enigmi che insinua su quello che è stato e su quello che verrà.
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