In un milieu di predatori, Troy, Diesel e Mad Dog vivono di quello che sanno fare, essendo prodotti di un sistema che li ha cresciuti e mantenuti per farli diventare così, frutto della violenza e della disperazione. Una condizione che viene riassunta per sommi capi in una conversazione nelle fasi iniziali di Cane mangia cane: “Non riesco proprio a crederci, voglio dire al modo che hanno scelto di costruire le prigioni. Poi le riempiono con dei fottuti coglioni che scontano pene per storie di droga da quattro soldi. Li trasformano in pazzi criminali, e poi li rimettono fuori tra la gente normale. È come se allevassero dei pazzi criminali in serra”. Il rifiuto della società è istintivo ed epidermico, come dice Troy: “Piuttosto che essere un politico, preferisco essere un ladro. Così, almeno, so chi sono”. In Cane mangia cane colpisce la spietata lucidità di Edward Bunker nel ricostruire la fallimentare psicologia dell’improbabile trio di delinquenti e la loro vocazione tossica al disastro: Troy, Diesel e Mad Dog rappresentano una banda di folli determinati a tutto, persino a confrontarsi con la morte, per convincersi che basterà un ultimo, fatidico colpo per sistemarsi, perché nell’intimo sanno che non ci sarà mai fine al loro “lavoro”, perché non se ne esce vivi. È Troy, più degli altri due, quello che interpreta al meglio l’inevitabile data di scadenza: “Della morte aveva veramente paura, o per lo meno dell’agonia. Il seguito era facile. In fin dei conti la morte era una via sicura per scappare dal dolore. Ma se avesse potuto recuperare qualche anno di solitudine in pace, magari anche trovarsi una ragazza dolce e tenera con la pelle bruna con cui scaldarsi i piedi, allora valeva la pena di sedersi al tavolo del crimine per giocare una partita per l’ultima volta”. Sono reietti e recidivi che hanno una sensibilità speciale nell’infilarsi in vicoli ciechi e la storia di Cane mangia cane viaggia alla stessa, vorticosa velocità dei loro piani che, nel computo dei pericoli, covano sempre uno scenario imprevedibile ed Edward Bunker è quasi didascalico nella sua ferocia nel mettere il lettore davanti e dentro i micidiali meccanismi del crimine, senza alcuna protezione. Come dice James Ellroy, “è realismo puro, una narrazione senza compromessi”, ed è realistico nella misura in cui segue passo per passo le gesta di Troy, Diesel e Mad Dog nelle strade di Los Angeles, che è cambiata mentre trascorrevano le loro vacanze a San Quentin: “un tempo la California meridionale era quasi un paradiso; adesso pareva ridotta a un avamposto del Terzo Mondo. Non per via del colore della pelle, ma per l’analfabetismo, la miseria, la disparità tra le classi sociali. La capacità di assimilare lo stile delle classi medie era andata in fumo”. Quando pianificano il colpo grosso, il rapimento di un bambino, riflettono sul fatto che “una regola d’oro per condurre a buon fine un atto criminale è non lasciar tracce. L’inosservanza di questa regola segnò la fine della presidenza di Richard M. Nixon. Che cazzo aveva in testa quando decise di conservare la documentazione di tutto il complotto? Perché non aveva distrutto i nastri, quando aveva cominciato a spuntar fuori tutta la merda?”. Resta solo il sibillino messaggio di Edward Bunker (ci sono farabutti ben peggiori), dato che Troy, Diesel e Mad Dog si lasceranno alle spalle una scia di sangue e di desolazione, sprofondando verso una finale crudele. Amaro, durissimo, senza uno scampolo di speranza e allineato alla perfezione con il resto del romanzo perché, come scriveva William Styron “il sottotesto di quest’opera, come di tutte le altre che Bunker ha scritto, è quello della perpetuazione della violenza e della crudeltà. Per Bunker il crimine trae nutrimento dalle culle dell’istituzione, e color ai quali è fatta violenza e sono spiritualmente mutilati nei primi anni della giovinezza, o in seno alla famiglia, o nelle case delle famiglie cui vengono dati in affidamento, o in riformatorio, crescono per diventare i predoni sanguinari della società. Cane mangia cane è un romanzo di un autenticità atroce, di una grande risonanza etica e sociale, e non poteva essere scritto che da Edward Bunker, che conosce ciò di cui parla poiché l’ha vissuto”. Una definizione perfetta per un libro che brucia in mano.
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