Elwood prova in tutti i modi ad adattarsi nell’America in bilico tra la segregazione e le lotte per i diritti civili. È diligente, ha un piccolo lavoro nell’emporio cittadino, vive con la nonna (i genitori, dispersi) e sogna il college, ascoltando a ripetizione Martin Luther King At Zion Hill. Le speranze e i dilemmi che si propagano quel disco per Elwood sono destinati a restare senza risposta: un giorno si ritrova in una macchina rubata soltanto perché ha chiesto un passaggio per andare al college e da lì, considerato complice del furto, viene destinato a un riformatorio che sfoggia l’apparenza di un plesso scolastico, ma che è anche peggio di una prigione perché “qualunque fosse la loro storia, qualunque cosa avessero fatto per venire mandati alla Nickel, i ragazzi erano legati insieme con la stessa catena ed erano diretti verso la stessa destinazione”. L’entità del reato e la condizione giuridica degli ospiti della Nickel restano molto relative dato che “i ragazzi venivano chiamati studenti, anziché detenuti, per distinguerli dai criminali violenti che popolavano le prigioni”, ma il personale ha una ferocia che ricondurre soltanto a caratteristiche primordiali, selvagge e ben poco umane. La Nickel non è soltanto “un’istituzione totale” come la definiva Erving Goffman in Asylums, ovvero una struttura che “si impadronisce di parte del tempo e degli interessi di coloro che da essa dipendono, offrendo in cambio un particolare tipo di mondo: il che significa che tende a circuire i suoi componenti in una sorta di azione inglobante”. La Nickel è un buco da cui non se ne esce vivi: l’oppressione è nella forma, nell’aria, nei costumi, nell’indefinita natura dei programmi, nella casualità dei ruoli, degli ordini e delle punizioni. Per I ragazzi della Nickel è disponibile solo un elenco di “umiliazioni, degradazioni e profanazioni”, come le definisce ancora Erving Goffman, per non dire delle torture e delle vessazioni, che è un brutale calvario senza alcun nesso con l’educazione o la rieducazione o l’applicazione della pena. Non finisce qui. Attorno (e attingendo) alla Nickel, prospera una ridente contea nella provincia della Florida, dove i rispettabili abitanti trascorrono le loro stagioni, tutte uguali e che comunque rimane “un paese di bianchi pronti a spaccarti la testa”, una tradizione consolidata visto che “dai loro padri avevano imparato come si tiene in riga uno schiavo, una brutale eredità trasmessa come una consuetudine di famiglia. Portarlo via dai suoi cari, frustrarlo finché non ricorda altro che la frusta, incatenarlo perché non conosca altro che le catene. Un soggiorno dentro una scatola di ferro, a cuocersi il cervello sotto il sole, poteva far rinsavire un negro, lo stesso valeva per una cella buia, una stanza sospesa nell’oscurità, fuori dal tempo”. L’opprimente violenza della Nickel amplifica la prevaricazione del razzismo delle cultura predatoria, trasformandola in una “fabbrica del dolore” che non lascia scampo. Elwood tenta ogni modo per sopravvivere, dall’elusione alla sottomissione ma la sofferenza diffusa e insensata regna dove vivono I ragazzi della Nickel cercando di resistere un giorno dopo l’altro, per inerzia,“senza poter capire come essere normali”. In effetti, è difficile stabilire i parametri di una presunta normalità quando bambini e adolescenti vengono prostrati, picchiati, abusati e uccisi senza pietà, alimentato da un sistema che si nutre della sua stessa ferocia. L’alternativa, ça va sans dire, sarebbe la fuga, ma il condizionale è obbligatorio perché ci sono ferite da cui non si può scappare. Basandosi su una storia vera, con una scrittura asciutta, limitata ed elementare, perfetta per descrivere la livida atmosfera della Nickel, Colson Whitehead ha confezionato un romanzo pieno di interrogativi, doloroso e urticante, ricorrendo solo a un piccolo e funzionale escamotage narrativo per definire l’evoluzione della personalità e della storia di Elwood e la verità indelebile che c’è sempre nella scoperta di “un’oscurità condivisa: se è vero per te è vero anche per qualcun altro, e allora non sei più solo”. Duro, durissimo, ma inevitabile.
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