Nei suoi risvolti autobiografici Andre Dubus cala i personaggi, a partire da se stesso, dentro i racconti come se fossero protagonisti di altrettante storie, mentre la storia è soltanto una, la sua. In questa terra di nessuno tra fiction e autobiografia, si muove con un’agilità che gli consente di modellare il timbro della sua scrittura senza rinunciare a nulla, a partire da una sincerità estrema. In Vasi rotti si trovano polemiche, compassione, dolore, malinconia, e un sentito omaggio a Richard Yates. È come spalancare la porta di una casa travolta dalla tempesta: il disordine ha persino una sua logica, ma è come se fossero spariti tutti e dalla soglia si cerchi di capire come muoversi. Con la stessa prospettiva, Dubus affronta alcuni temi rilevanti e in Vasi rotti ci sono riflessioni ad alta voce sulla fede (cattolica), sul rapporto con l’universo femminile, sull’endemica violenza della società americana e, nel complesso, sulla fatica e sulla gioia di vivere. A volte si tratta di lunghe istantanee della vita quotidiana: un viaggio in treno assecondando la multiforme varietà dei panorami, gli aneddoti della permanenza a bordo di una portaerei, il momento del tragico incidente che lo vide involontario protagonista e poi vittima a sua volta, i tre matrimoni e le figlie, il cui ricordo alimenta la struggente conclusione di Vasi rotti. Alcuni spezzoni sono davvero singolari. Per esempio, Come un agnello, è una cronaca bucolica che vede Dubus e la famiglia impegnati a custodire un gregge di pecore, con risultati decisamente precari, e con la constatazione paradossale che “la verità era che eravamo bestie stupide e indifese; e che senza controllo, avremmo finito per distruggerci con le nostre mani come folli”. Altrettanto particolare è Bozzetti casalinghi dove le reminiscenze della vita militare portano Andre Dubus a riflettere anche sul fatto che “dobbiamo volere bene ai soldati che hanno combattuto. La loro nazionalità non conta, e nemmeno chi siano. Dobbiamo volergli bene per ciò che hanno sofferto, per le cose terribili che loro e i loro compagni hanno dovuto subire; anche se alcuni di loro hanno fatto cose altrettanto terribili, ovviamente”. Un’altra eccezione che ci mostra Andre Dubus a suo agio anche con un’ambientazione surreale è Due fantasmi, che nel suo formato sembra accordarsi alle profondità più intime della sua scrittura, con una sottile punta di ironia che distingue questo frammento da tutti gli altri raccolti in Vasi rotti. Sono due, invece, le costanti che si snodano offrendo un’ideale saldatura tra un passaggio e l’altro: la passione per il baseball che filtra senza sosta, pagina dopo pagina, e poi, come le definisce in Una donna ad aprile, “le infinite possibilità del cuore umano” che in pochi hanno saputo svelare come Andre Dubus. Tra le righe, c’è anche, un piccolo manuale di sopravvivenza per l’editoria, che è sempre un tema contorto e delicato e che viene sintetizzato in due o tre frasi. In Vendere racconti, Dubus spiega con un accorata dichiarazione che “il nostro unico debito è verso noi stessi e verso quelle storie che ci parlano da qualunque sia il posto in cui si trovano fino a quando non le scriviamo. E ogni scrittore ha storie che solo lui può dare alla luce e, fino a quando non lo fa, galleggiano come spiriti senza corpo che piangono per essere messi al mondo”. Le resistenze, allora come oggi, alla particolare entità dei racconti, sono viste anche sotto una luce diversa, facendosi una ragione di quell’ostracismo innato e ingiustificato, e godendosi “la grande libertà che si prova a volte quando si scrive senza pensare che il tuo racconto debba essere destinato a un mercato”. Andre Dubus è ancora più pragmatico in Marketing dove semplifica al massimo l’arte di ottenere un rifiuto editoriale dato che “pubblicare è un affare e non puoi disprezzare qualcuno perché sa come gestire i propri affari”. Per inciso, la scrittura non è un miracolo, ma lavoro, dedizione, pratica, pazienza e la fatica per schivare tutti gli ostacoli della cosiddetta realtà che Andre Dubus ha ben conosciuto.
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