L’addio a Vic Chesnutt di Kristin Hersh è un po’ un diario di viaggio e un po’ il frutto di una corrispondenza con un destinatario sfuggente, che non risponde mai. Le cronache in tour coinvolgono quattro persone, che poi sono due coppie: Kristin Hersh e il marito (e manager) Billy O’Connell e Vic Chesnutt e la moglie (e bassista), Tina Whatley. La complicità che si sviluppa nelle lunghe ore di attesa tra un concerto e quello dopo (in mezzo non c’è altro, se non la strada) diventa un terreno di incontro ee scontronel quale l’attrito con e per Vic Chesnutt genera un racconto agrodolce, ispido e dolorosamente sincero. Nella sua semplicità, Kristin Hersh è molto efficace nel dipanare i legami incrociati, inquadrandoli sempre attorno alla figura tormentata di Vic Chesnutt, un concentrato di ironia, furia, sofferenza e sensibilità. Il dialogo è a senso unico: Kristin Hersh gli scrive a distanza, senza ottenere risposta perché lui è duro e fragilissimo, fino agli appelli finali, che cadono nel vuoto. Restano le emozioni degli show insieme e Kristin Hersh ricorda che “il rumore che fa il dolore è bellissimo quando viene messo in musica. Il rumore che fa la gioia è ancora più bello, ma quello che facevamo noi era ancora rozzo”. I concerti si susseguono in luoghi minuscoli, piccoli anfratti in uno scenario di desolazione fatto di parcheggi, motel disadorni, pillole e tequila, screzi e giochi di parole e un sacco di tempo perso per arrivare all’emozione di cantare insieme Panic Pure o tutte quelle “canzoni che facevano venir voglia di mettere la mano davanti alla bocca, tanto erano oneste”, come le definisce Amanda Petrusich nella prefazione. Con i vestiti sgualciti, tra il grande nulla dell’America e la scoperta dell’Europa, con i pasti consumati in fretta e senza gusto, arrancando tra notti insonni e faticosi risvegli, il colore della storia è un grigio metallico e screziato, a riprova di quello che scrive ancora Amanda Petrusich: “In nessuna situazione queste idee diventano così immediatamente chiare se non quando si soffre per tutte le umiliazioni legate all’andare costantemente in tour con pochi mezzi a disposizione, le avversità appena temperate, e per breve tempo, da quella strana estasi che accompagna le esibizioni dal vivo”. L’insieme non può che essere frammentario, come una cornice che cerca di tenere insieme un quadro spezzato che nel suo centro ha la figura di Vic Chesnutt e quella irripetibile alchimia una volta on stage, che Kristin Hersh descrive così: “Ogni palco è un terreno sconosciuto che devi tastare, di cui ovviamente non puoi apprendere tutti i fondamenti. Alcuni di questi fondamenti sono come fili che non hanno alcuna intenzione di assecondarti, si attorcigliano in maniera subdola, tanto da formare un cappio personalizzato. Cappio con cui ci impicchiamo regolarmente, mentre la gente si aspetta che officiamo la messa, che diventiamo corpi di canzoni cominciano a fluttuare sul pubblico, oppure che ci trasformiamo in spesse nubi di suono prima di riprendere la nostra forma”. È l’unica fonte di sostentamento, forse anche l’ultimo appiglio alla realtà ma, ammette Kristin Hersh con candore, “i volti che ti emozionano possono ferire se la vita non sempre è stata gentile. E sogni folli hanno lasciato uno strano miscuglio di speranza e disperazione, la sensazione di avere una casa e contemporaneamente non averla”. In quel momento il traballante equilibrio della comitiva si sfalda, anche perché il ritorno, casa o non casa, implica la separazione. Lì la conclusione di Kristin Hersh per Vic Chesnutt è lucida e preoccupata in parti uguali: “La cosa più folle, e lo dico in senso letterale, la cosa più folle, era che per te vittoria significava sempre sconfitta”. Fino all’epilogo, più volte annunciato, nel giorno di Natale del 2009. Con Vic Chesnutt se ne va anche quel piccolo milieu in viaggio, compreso il matrimonio tra Billy O’Connell e Kristin Hersh, che si ritrova, sola, a cantare sul palco e ad ammettere che “a volte mi limito a consentire alle canzoni di farmi scomparire”. Straziante, ma vero.
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