C’è sempre qualcosa di
onirico e di fiabesco nelle canzoni e nella scrittura in generale di
Suzanne Vega, anche quando si dedica a situazioni complicate e a
immagini taglienti (e non solo in senso metaforico). Riesce a
collocare le parole nel senso giusto, le arrotonda, le ammorbidisce,
le addomestica, non importa se deve seguire Le regole contorte della
notte, con l’ambizione di “sentire ogni segreto degli amanti in
battaglia, ogni ombra di rosso e nero”, come scrive Sogno in
marcia, o scrutare Marlene che sorride beffarda dal muro. E’
un’osservatrice acuta, con una grazia insolita e originale, che
merita una briciola d’attenzione, senza pretendere alcunché dato
che, così come lo presenta Suzanne Vega, “questo libro parla di
solitudine, di infanzia, della vita di città, dei mondi della
fantasia, delle cose romantiche, di violenza, dei misteri legati al
sesso, alle apparenze, al fascino, delle difficoltà di comunicare,
di fede e di speranza”. Scorrono frammenti di ispirazione
infantile, appunti di un songwriting impressionistico, paragrafi di
un diario che comprende la scoperta del fado in Portogallo e il
ricordo di una session fotografica con David Bailey, “una sfida che
deriva dal guardare e dall’essere guardati”. Il collegamento con
la riflessione Sulla mascolinità che segue di poche pagine è
obbligatorio e automatico: “Per me le persone sexy sono quelle che
hanno senso dell’umorismo, che sono intelligenti, che hanno un po’
di senso dello stile; le persone gentili, quelle che esprimono le
proprie opinioni, quelle che sono creative, quelle che hanno
personalità”. Senza ambire a definizioni intellettuali, e pur
restando una delle Neighborhood Girls, lo sforzo è tutto nel
tentativo di trovare un senso, con una convinzione cristallina visto,
come ammette in Antieroe, che “sbatto la testa contro il mondo
finché non lo capisco”. Il rimedio allo scontro e alle ferite è
una scrittura che comincia dalle istruzioni illustrate da Suzanne
Vega in Come scrivere una poesia: “Devi prendere la lingua,
scuoterla bene, sottometterla, reggerla, tenerla ferma. Bloccala
quando si agita. Prendila a bastonate. Poi usa lo scalpello, la lima.
Modella, scava, falle la punta e rendila affilata, cava, liscia e
tonda”. Così facendo, affiora una sensibilità, una delicatezza
che le permette di accorgersi che “non è il pugno chiuso, e
neanche il colpo, o l’occhio nero. E’ l’inattesa tenerezza che
ti fa piangere”, come scrive in Fatto. Aspettando quell’epifania,
si può scegliere tra una Canzone notturna e una Canzone in affitto,
ma il senso alla fine è sempre quello: “Prendi questa parola falle
fare due giri intorno al cuore, uno per tenerlo insieme l’altro
perché non vada in pezzi”. Anche nei racconti, dove specifica le
sfumature del Cielo azzurro e sangue sulla 10a Avenue o nelle Storie
di sogni Suzanne Vega osserva una specie di distanza, una
discrezione, come se dovesse chiedere il permesso ogni volta, “come
se avessi imparato a vedere e parlare di quello che ho visto anche se
non conosco parole per quello che ora so”, scriveva in La chiave
del regno. E’ una “piccola cosa blu”, e lo stesso colore della
chitarra di Wallace Stevens è qualcosa in più di un indizio.
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