Personaggio
eclettico, eccentrico ed esoterico, Harry Smith è stato un mago
(davvero) ma senza trucchi o effetti speciali, soltanto il gusto e
l’istinto dnel seguire il proprio pensiero, in tutte le
divagazioni, le allucinazioni, le visioni possibili. Nella sua
dimensione di ricercatore disordinato, di bricoleur imperfetto, di
filmaker a corto di budget, di intellettuale senza definizione e
senza schema viene incanalata un modello di conoscenza non
accademica, non razionale, non raziocinante, non finalizzata a una
produzione. Era incomprensibile allora, figurarsi oggi e infatti uno
che l’ha conosciuto bene, il fotografo Robert Frank, ha detto: “Era
avanti a tutto e a tutti”. Nel caos primordiale di Harry Smith c’è
vitalità, c’è stupore, incontaminato e naïf
finché si vuole, ma molto creativo nella sua artistica percezione
dell’esistenza. Lo spirito dell’improvvisazione si nota
nell’immagine di Harry Smith che tiene il tempo di Thelonious Monk
cercando di ricostruirlo battuta per battuta (auguri). Lo si vede
anche nella fantasmagorica eredità che si è lasciato alle spalle
perché Harry Smith è stato soprattutto un
collezionista. Ha raccolto di tutto, e senza una particolare
giustificazione scientifica o storica: “Lascerò al futuro
il compito di capire il significato di tutte queste uova, delle
coperte, dei patchwork dei seminole che non guardo mai, e i dischi
che non ascolto mai. Comunque è giustificabile quanto qualcosa che
si fa, quanto qualsiasi tipo di ricerca, ed è più giustificabile di
cose più violente, come litigare con qualcuno, o diventare un
pescatore per l'esportazione. E' un modo di ingannare il tempo nel
modo più innocuo possibile, in modo non violento. Se qualcuno vuole
essere violento, lo avviso dei cinquemila dollari di uova fradice,
pronte ad esplodere. Non deve esserci violenza qui”. Bisogna però
notare che proprio dai suoi bizzarri archivi discografici è
scaturita l’Anthology of American Folk Music, la pietra
d’angolo della riscoperta della tradizione della cultura popolare
americana. Un ingente patrimonio che ha determinato una svolta
importantissima e una fonte inesauribile di sollecitazioni, a cui
tutti hanno attinto. E’ senza dubbio il risultato più eclatante
ottenuto dalle sue stravaganti collezioni e ricerche (per la cronaca
la ristampa ha vinto un Grammy nel 1991), ma American Magus,
pur con il suo carattere variopinto (dalle interviste alle note di
copertina dell’Anthology, contiene moltitudini), rende
omaggio a tutta la complessità di un personaggio la cui importanza è
ancora in gran parte oscura e inesplorata. Non vedendo distinzione
tra arte e vita, era brillante anche nel suo candore, quando scriveva
in un nota al Catalogo N. 3 della Film-Maker’s Cooperative,
1965: “Per coloro che sono interessati a questi film: dal N. 1
al N. 5 vennero fatti sotto l’effetto dell’erba; il N.
6 con eroina (faceva splendere il sole) e stimolanti; il N. 7
con cocaina e stimolanti; dal N. 8 al N. 12 con quasi
tutto, ma principalmente in uno stato di veglia allucinata, e il N.
13 con pillole verdi avute da Max Jacobson, pillole rosa da Tim
Leary, e vodka; il N. 14 con vodka e porto bianco
italo-svizzero”. Se ne è andato in una camera del Chelsea Hotel,
naturalmente. Facile condividere la comprensione e l’affetto di
Allen Ginsberg (più di tutti), Jerry Garcia e Bob Dylan che attinse
dall’Anthology of American Folk Music e forse ne comprese la
portata più di chiunque. Harry Smith non ricambiò molto la stima.
Una notte, proprio a casa di Allen Ginsberg che lo ospitava, sbatté
la porta chiedendo a Dylan di smettere di far rumore. L’aneddoto,
confermato dai presenti, oltre a essere emblematico degli sbalzi
d’umore di Harry Smith, è curioso perché Dylan stava facendo
ascoltare Empire Burlesque. Forse Harry Smith non aveva tutti
i torti, anche perché il titolo, a ben vedere, sembra fatto su
misura per lui.
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