martedì 10 gennaio 2017

Harry Smith

Personaggio eclettico, eccentrico ed esoterico, Harry Smith è stato un mago (davvero) ma senza trucchi o effetti speciali, soltanto il gusto e l’istinto dnel seguire il proprio pensiero, in tutte le divagazioni, le allucinazioni, le visioni possibili. Nella sua dimensione di ricercatore disordinato, di bricoleur imperfetto, di filmaker a corto di budget, di intellettuale senza definizione e senza schema viene incanalata un modello di conoscenza non accademica, non razionale, non raziocinante, non finalizzata a una produzione. Era incomprensibile allora, figurarsi oggi e infatti uno che l’ha conosciuto bene, il fotografo Robert Frank, ha detto: “Era avanti a tutto e a tutti”. Nel caos primordiale di Harry Smith c’è vitalità, c’è stupore, incontaminato e naïf finché si vuole, ma molto creativo nella sua artistica percezione dell’esistenza. Lo spirito dell’improvvisazione si nota nell’immagine di Harry Smith che tiene il tempo di Thelonious Monk cercando di ricostruirlo battuta per battuta (auguri). Lo si vede anche nella fantasmagorica eredità che si è lasciato alle spalle perché Harry Smith è stato soprattutto un collezionista. Ha raccolto di tutto, e senza una particolare giustificazione scientifica o storica: “Lascerò al futuro il compito di capire il significato di tutte queste uova, delle coperte, dei patchwork dei seminole che non guardo mai, e i dischi che non ascolto mai. Comunque è giustificabile quanto qualcosa che si fa, quanto qualsiasi tipo di ricerca, ed è più giustificabile di cose più violente, come litigare con qualcuno, o diventare un pescatore per l'esportazione. E' un modo di ingannare il tempo nel modo più innocuo possibile, in modo non violento. Se qualcuno vuole essere violento, lo avviso dei cinquemila dollari di uova fradice, pronte ad esplodere. Non deve esserci violenza qui”. Bisogna però notare che proprio dai suoi bizzarri archivi discografici è scaturita l’Anthology of American Folk Music, la pietra d’angolo della riscoperta della tradizione della cultura popolare americana. Un ingente patrimonio che ha determinato una svolta importantissima e una fonte inesauribile di sollecitazioni, a cui tutti hanno attinto. E’ senza dubbio il risultato più eclatante ottenuto dalle sue stravaganti collezioni e ricerche (per la cronaca la ristampa ha vinto un Grammy nel 1991), ma American Magus, pur con il suo carattere variopinto (dalle interviste alle note di copertina dell’Anthology, contiene moltitudini), rende omaggio a tutta la complessità di un personaggio la cui importanza è ancora in gran parte oscura e inesplorata. Non vedendo distinzione tra arte e vita, era brillante anche nel suo candore, quando scriveva in un nota al Catalogo N. 3 della Film-Maker’s Cooperative, 1965: “Per coloro che sono interessati a questi film: dal N. 1 al N. 5 vennero fatti sotto l’effetto dell’erba; il N. 6 con eroina (faceva splendere il sole) e stimolanti; il N. 7 con cocaina e stimolanti; dal N. 8 al N. 12 con quasi tutto, ma principalmente in uno stato di veglia allucinata, e il N. 13 con pillole verdi avute da Max Jacobson, pillole rosa da Tim Leary, e vodka; il N. 14 con vodka e porto bianco italo-svizzero”. Se ne è andato in una camera del Chelsea Hotel, naturalmente. Facile condividere la comprensione e l’affetto di Allen Ginsberg (più di tutti), Jerry Garcia e Bob Dylan che attinse dall’Anthology of American Folk Music e forse ne comprese la portata più di chiunque. Harry Smith non ricambiò molto la stima. Una notte, proprio a casa di Allen Ginsberg che lo ospitava, sbatté la porta chiedendo a Dylan di smettere di far rumore. L’aneddoto, confermato dai presenti, oltre a essere emblematico degli sbalzi d’umore di Harry Smith, è curioso perché Dylan stava facendo ascoltare Empire Burlesque. Forse Harry Smith non aveva tutti i torti, anche perché il titolo, a ben vedere, sembra fatto su misura per lui.

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