domenica 22 gennaio 2017

Henry Miller

Propiziato da Anaïs Nin, siglato con il dono di Seraphita di Balzac, l’incontro tra Conrad Moricand e Henry Miller condensa e celebra un momento singolare nella storia della cultura occidentale. A Parigi, su cui incombeva l’avvento della seconda guerra mondiale, si era data convegno una variopinta umanità con lo scopo (nel caso ne servisse uno) di “rovesciare i valori costituiti, del fare del caos che lo circonda un suo ordine che sia il suo proprio, di seminar fermento e discordie sì che, per un rilancio emotivo, quelli che sono morti possano essere restituiti alla vita”. Lo stesso Henry Miller si considerava “un espatriato da Brooklyn, un francofilo, un vagabondo, uno scrittore appena all’inizio della carriera, ingenuo, entusiasta, assorbente come una spugna, pieno di interesse per ogni cosa e, in apparenza, privo d’ogni paura”. Con Moricand nacque un’istintiva complicità, dovuta alla comune passione per i voli pindarici, per la fame di arte, in tutte le sue forme, e per una concezione della vita libera da regole e luoghi comuni. Parigi combacia in gran parte con il Paradiso perduto, dove Moricand vede in Henry Miller, “un angelo circondato dalla fiamme”. E’ un’immagine che rende l’idea di “sfruttare al massimo la situazione! Ed era quello che facevamo, noi che tenevamo duro fino al colpo di sirena dell’ultima nave”. Ormai è questione di settimane e con un saggia decisione Henry Miller (“Non aspetto che gli unni vengano a scovarmi”) se ne va in Grecia, ultima tappa prima di tornare all’incubo ad aria condizionata. Negli anni del conflitto, Moricand resta in Francia, solo e stremato, finché, una volta finita la guerra, Henry Miller non lo invita in America. Il libro in sé è inconcludente nell’elencare le traversie della vita dissoluta di Conrad Moricand e della sua permanenza a Big Sur che (a dispetto della sua fama) non è mai stato un luogo agevole. Detto questo, Moricand è anche l’archetipo di un mondo dove la dimensione dell’arte permea qualsiasi cosa diventando “un enchaînement che non era solo stimolante ed eccitante ma spesso allucinante”. E’ un elemento del Paradiso perduto che peserà: Conrad Moricand è un ospite complicato, è assorbito dall’astrologia e dall’occultismo, ossessionato dalle espressioni artistiche non di meno che dall’ozio. Ha il suo bagaglio di idiosincrasie e l’America, una volta smaltita la sbornia, diventa una gabbia. Comincia a diventare scomodo e irritante, anche perché Henry Miller ha libri da scrivere e una famiglia (tutto sommato) da mandare avanti. Il confronto è serrato, cerca di rispondere, dove può, alle richieste di Moricand, fornendogli, oltre al sostentamento essenziale, quelle piccole cose (le sigarette, il vino) che non fanno altro che acuire la nostalgia per quel Paradiso perduto che era quella Parigi, e che ormai non c’è più. Miller se ne rende conto perché dice: “E’ solo quando smettiamo di cercar di vedere, quando smettiamo di cercar di sapere, che vediamo e sappiamo sul serio”. In una giornata radiosa si confrontano di fronte all’oceano e Moricand gli dice che gli “manca il marciapiede sotto le suole”, che si sente un recluso, che soffre l’allergia e via via sfodera un lungo cahier de doléances. La risposta, nonostante l’energia profusa, è insoddisfacente, ma è evidente che Miller aveva preso coscienza che un’epoca era finita, che ormai stava cambiando tutto, e gli dice, tra l’altro: “Al mondo non c’è niente che non va. Quello che non va è il modo in cui noi lo guardiamo”. Troppo poco per Moricand che se ne andrà tra mille peripezie, insistenti richieste di denaro e di supporto e un (altro) paradiso perduto per sempre. Come riassume Arthur Hoyle nella biografia di Henry Miller, “alla fine Moricand fu arrestato dall’ufficio immigrazione degli Stati Uniti e rimpatriato nell’autunno 1949; morì cinque anni dopo a Parigi, ma non prima di aver pubblicato altri strali contro Miller in Francia”, comunque ormai “solo come un topo, nudo come l’ultimo dei clochard”, come scrisse Théopile Briant, l’unico amico che gli era rimasto.

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