sabato 7 gennaio 2017

Flannery O'Connor

Nella perfezione dell’incipit, Il cielo è dei violenti trova subito una collocazione precisa e inevitabile: l’ambientazione rurale (il campo di granoturco), la povertà come una condizione rigida, in cui si svolge tutto, in particolare dove “Tarwater portava il suo isolamento come una cappa, se l’avvolgeva addosso quasi fosse un segno distintivo di elezione”. Tarwater è cresciuto con un vecchio ossessionato dalla fede e dalle sue visioni che, alla sua morte, ricorda solo che un profeta serve “a riconoscere che qualcuno è un asino o una puttana”. Flannery O’Connor è (quasi) blasfema quando dice che “il mondo è stato creato per i morti”, ma d’altra parte è altrettanto credibile quando ne consegue che: a) “nessuno è più povero dei morti”, e che, soprattutto, b): “ci sono un milione di volte più morti che vivi, e i morti restano morti milioni d’anni più di quanto i vivi restino vivi”. Ecco che Tarwater prova a “scavare la fossa sotto il fico perché il vecchio avrebbe fatto bene ai fichi”, ma non riuscendo a completare l’opera, incendia la misera casupola in mezzo ai boschi, con il cadavere e i suoi ormai inutili arnesi. Quando bussa alla porta di Rayber, il maestro che vive con Bishop, un figlio menomato, sgorga un complessa triangolazione tra l’ombra del vecchio, il maestro e lo stesso Tarwater, su cui grava il rilevante peso di scelte inevitabili, delle costrizioni della vita e di un feroce scontro tra fede e ragione, tra mistero e dubbio. Il cielo è violento è un capolavoro livido ed estremo: le contorsioni di un linguaggio umile, economico, con un vocabolario limitato, eppure espressivo e fortissimo nel rappresentare i contrasti tra i protagonisti almeno quanto i loro conflitti interiori. “Sono soltanto parole”, ma le profezie (da un parte) non meno dei test e delle analisi (dall’altra) conducono alla privazione, allo strazio, alla follia e nella costruzione di Flannery O’Connor hanno una forza ipnotica, proprio nel suo calibrare i passaggi dei personaggi, la lunga discesa nelle tenebre dove, una volta di più, sono ancora gli opposti (l’acqua e il fuoco) che si sviluppano, simbolici e teatrali, a sottolineare i paesaggi nel finale. E’ risoluta, convinta, decisa, Flannery O’Connor nel seguire i protagonisti, scrupolosa nel sottolinearne i difetti e le idiosincrasie. Non gli concede nulla, perché sono combattuti, divisi e piegati, ma li accompagna e li asseconda, spiegandone così i motivi portanti delle loro caratteristiche: “Non mi interessano le sette religiose in quanto tali. Quello che mi interessa è l’individuo religioso, il profeta dei boschi. L’eroe de Il cielo è dei violenti è il vecchio Tarwater, e io sono con lui al cento per cento”. Tarwater ha un’intelligenza limitata (anzi, concentrata) e sofferente, come se l’istinto di sopravvivenza fosse frutto di un lento apprendimento ed è la migliore espressione di quella che Flannery O’Connor chiama “l’atroce chiarezza”. La violenza è scandita attraverso i dialoghi, in particolare quelli tra Rayber e Tarwater, che sono sferzanti. Quando Rayber dice a Tarwater: “Io ti ho salvato perché tu fossi libero, perché fossi te stesso e non un’informazione dentro la tua testa”, compie un primo, decisivo passo verso la dissoluzione di entrambi. “Pensi della scatola o nella testa?” chiede Tarwater, e la domanda è ambivalente perché è rivolta a Rayber, che ha bisogno di un apparecchio acustico per sentire, ma nasconde una perfida e sottile allusione al figlio. Con matematica precisione, Flannery O’Connor associa alle tre figure centrali e stanziali, altrettanti personaggi secondari. Il primo viaggiatore, il rappresentante di tubi ovvero Meeks, giunge ben presto alla conclusione che Tarwater era “abbastanza suonato e abbastanza ignorante da essere un buon lavoratore, e lui aveva bisogno di un ragazzo energico e molto ignorante da metter sotto a lavorare”. Notare, en passant, l’uso delle reiterazioni, come uno schiocco di dita per tenere sveglio il lettore. Ci saranno altri due incontri di Tarwater nella sfumatura conclusiva che incupisce Il cielo è dei violenti: il camionista che, indifferente, si addormenta sul bordo della strada e l’autista che lo deruba e ne abusa, proprio ai confini della radura dove il rogo ha bruciato il vecchio e la sua tragica dimora. Non resta nulla, non un pensiero, non una preghiera. Cala il sipario, buio, silenzio. 

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