James
Ellroy sguazza con perfida allegria nelle nuove e antiche paure
riemerse dopo l’11 settembre 2001. Gli viene spontaneo e naturale
ambientare la Jungletown Jihad nel
substrato di una città che in effetti non è una città, è
un’espressione senza forma di una moltitudine di ghetti e
roccaforti. La sua conoscenza della street life di Los Angeles gli
permette di muoversi a suo agio, e non solo, perché James Ellroy
traduce in narrativa, nella sua singolare, sincopata e brutale
narrativa, quelli che Mike Davis in Geografie
della paura chiama Impulsi
omicidi e panorami in fiamme, come
se le pulsioni di un’intera una “metropoli in fase esplosiva”,
come la definiva William Whyte filtrassero attraverso il terreno e
contaminassero le persone e i personaggi. L’impatto, va da sé, è
durissimo: le contrazioni di una lingua che, strapazzata e storpiata
pezzo per pezzo, parola per parola, diventa gergo, slang, invettiva
collimano alla perfezione con la trama psicotica di Jungletown
Jihad. Succede che Rick Jenson
scomodo detective del dipartimento di di Los Angeles incrocia un
contorto progetto terroristico finanziato dal mercato pornografico
nelle sue peggiori perversioni. Siamo a Hollywood, dopo tutto, e il
mondo fittizio e surreale del cinema (dove nel frattempo stanno
provando a mettere in piedi un film su Ann Sexton) è comunque
un’altra forma di vita rispetto al resto del pianeta. Rick Jenson
non ci casca, si difende con metodi meno che ortodossi e men che meno
istituzionali, ripara da Donna Dohanue, una femme fatale tra le più
in vista di sempre nella fiction di James Ellroy e non fa distinzioni
tra “delitti ignobili” che abbiano non abbiano una matrice
politica. Nella sua immaginazione sono tutti “farabutti con fini
criminali” e James Ellroy non restano alternative se non
crogiolarsi nell’infimo e alzare il tiro: il racconto è
scorticato, le frasi sono bruciate e masticate, il tono è per niente
corretto, anzi, è più spudorato che mai. La considerazione nei
confronti dei connazionali (per non dire del resto dell’umanità) è
al minimo storico, il diluvio di alcol e droghe inarrestabile, lo
svolgimento brutale, tambureggiante, senza respiro. Se lo si
asseconda, Jungletown Jihad può
anche considerarsi un’apoteosi nello stile di James Ellroy con i
suoi sarcastici neologismi, la sua sprezzante disposizione verso
regole, limiti e definizioni. Ovvero una logica autocelebrazione di
James Ellroy, solo che Jungletown
Jihad annuncia molto, forse troppo
perché rimane inchiodato sul punto: la storia sembra contorcersi su
se stessa, elenca con una frenesia cinematografica (e anche con una
certa fretta) i movimenti nelle strade, poi torna con insistenza a
Rick Jenson e a Donna Dohanue, come se ci fosse qualcos’altro da
raccontare che però deve essere andato perso nelle strade di Los
Angeles. Pare evidente che la forma ridotta di Jungletown
Jihad non è sufficiente: James
Ellory ha bisogno di molto più spazio e di molto più tempo per
avvelenare e ipnotizzare il lettore a cui, in questo caso, resta
soltanto un’indefinita sensazione di incompiutezza.
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