martedì 3 gennaio 2017

Mezz Mezzrow

Mezz Mezzrow, che nasce “coetaneo del secolo ventesimo”, ha trascorso una vita intera a scoprire che “jazz e libertà sono sinonimi”. Comincia che è ancora un bambino a seguire il ritmo della street life, lo slang dei bassifondi, e quell’utile consiglio per cui “se non sapete far soldi, fatevi almeno degli amici”, che diventerà poi il classico Makin’ Friends di Jack Teagarden. La sua è “una tipica storia americana, ma capovolta”, nel senso che l’unica scuola che ha frequentato è stata quella della galera, che ricorderà soprattutto per il condannato a morte che andava incontro al suo destino con Dear Old Girl nell’aria. La musica c’è sempre, è l’unico linguaggio condiviso, una forma di sollievo e di piacere, “un geyser di emozioni in ebollizione, che spalanca tutte le finestre e permette ai nostri istinti, alle nostre idee, ai nostri sentimenti di sgorgare liberamente”. E’ anche l’ultima spiaggia per Mezz Mezzrow che comincia a suonare e a scrivere perché “nel 1926 la danza di San Vito, punteggiata dal ritmo dei mitra, si diffuse per tutto il paese. Dal tramonto all’alba non si fece che suonare il jazz, bere whisky di contrabbando e abbandonarsi alla pazzia”. E’ un’epoca bollente e selvaggia che vede Mezz Mezzrow dividersi tra sassofono, clarinetto e valanghe di marijuana che, a lungo, costituirono la sua principale fonte di sostentamento. Il doppio lavoro non gli impedisce di ritrarre da vicino i protagonisti, con minuziosa passione. A Bessie Smith dedica un lungo omaggio che si conclude così: “Bessie era una vera donna, tutte le donne del mondo riunite in una persona sola”. Più colorito, ma non meno affettuoso il ritratto di Bix Beiderbecke che “suonava una cornetta che portava con sé senza astuccio, un corto e grosso affare inargentato, che sembrava fosse stato raccolto proprio in quel momento dalla spazzatura. Mentre suonava, s’era piantato davanti a me, perché noi eravamo i due strumenti di spalla, e le esalazioni di whisky che mi soffiò sul naso per poco non mi fecero svenire; ed anche la musica che usciva dal suo strumento sembrava sotto spirito”. Sono altrettanto vivide e sanguigne le rappresentazioni della legione di musicisti che Mezz Mezzrow convoca racconta snocciolando i suoi blues, da Jelly Roll Morton a Sidney Bechet, da Gene Krupa ad Alberta Hunter fino a Louis Armstrong, che “era un genio, e avrebbe saputo creare della grande musica anche avendo a sua disposizione solamente un’asse da lavandaia e un pettine”. Attorno a questi indimenticabili (e geniali) protagonisti, si sviluppa tutto “un mondo equivoco”, come lo definisce Mezz Mezzrow, dove artifici ed espedienti per la sopravvivenza dei jazzisti (in un aneddoto, capita che vengano pagati in anatre, ancora da cucinare) devono sopportare la convivenza forzata con i gangster, la somma incomprensione delle loro idee, per non dire le tentazioni degli oppiacei. Tra Chicago, Detroit, New York, New Orleans e Parigi, diario di bordo di Mezz Mezzrow resta una cronaca cruda, spontan e grezza finché si vuole, ma molto sincera, anche nella sua limitata, e ben precisa, collocazione temporale: “Il 1927 e il 1928 furono gli ultimi anni fortunati del vero jazz, gli ultimi in cui un solista, dotato di vera ispirazione, potesse ancora abbandonarsi alla sua vena e conquistare il pubblico, che lo ascoltava a bocca aperta. Ma quel periodo stava per concludersi, per diventare un capitolo nella storia del jazz, anzi la favola di un’età mitica”. In effetti è proprio così, e alla fine soltanto la musica è rimasta coraggiosa, intrepida, inalterata, splendida perché, come racconta Mezz Mezzrow, “è sgorgata tutta da nostro entusiasmo, dal nostro vivo senso di amicizia, proprio come la musica nata quaranta o cinquant’anni fa a New Orleans, e sempre nuova. E questo è il tipo di musica che continueremo a incidere sui nostri dischi, finché riusciremo a respirare, o finché il nostro vecchio cuore non si stancherà di battere”. L’ultima tappa, nella Big Easy, in realtà riporta all’inizio di tutto ed è la chiave di volta nel commiato di Mezz Mezzrow: “Questo era quel che New Orleans voleva dire: era una celebrazione della vita, respirare, piegare i muscoli, sbattere le palpebre, leccarsi le labbra, malgrado tutto il male che il mondo può farvi”. Questo è il blues, questo è il jazz.

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