Le egrette alias garzette sono la parte più importante dell’ornitologia di Derek Walcott che comprende altri ardeidi come gli aironi, e poi tortore, corvi e gracchi, usignoli, gabbiani e colibrì. Una serie di voli che popolano pagine movimentate e sottolineate dall’identificazione con le Egrette bianche, dove Derek Walcott dice che “condividiamo lo stesso istinto, il vorace cibarsi del becco della mia penna, quel raccogliere insetti che si dimenano come nomi e ingoiarli, col pennino che legge mentre scrive e scrolla via quello che il becco rigetta. La selezione è ciò che insegnano le egrette sul prato ampio e aperto, la testa che annuisce mentre leggono in risoluto silenzio, una lingua al di là delle parole”. Quando Walcott scrive “non siamo mai dove siamo, ma altrove”, suggerisce un vorticoso giro del mondo che nei versi associa Siracusa e la Sicilia, Barcellona e la Spagna, Napoli e il Mediterraneo, il Cervino e le Alpi sullo sfondo di Milano, New York, Stoccolma, Bruxelles, Amsterdam nonché le vestigia dell’impero caduto, ricordando i rimasugli coloniali, e di volta in volta i relativi anfitrioni: Pavese, Quasimodo, Cervantes, Lorca, Blake, Van Gogh, Vermeer e Conrad. L’ultima tappa è infine la Giamaica, espressione per tutti i Caraibi, e qui la lingua di Derek Walcott, che è una sorta di esperanto lirico, comprende un grado di disordine fisiologico perché “il moto genera perdita”, e all’arrivo le conclusioni sono contrastanti. Il bardo errante è senza dubbio “attento alla luce del tempo” e “accetta tutto con frasi pacate con l’assegnazione scolpita che dispone ogni strofa”, ma, come diceva lo stesso Cesare Pavese, “non è facile dire quando il poeta debba fermarsi”, e Derek Walcott risponde alla necessità di arenarsi un po’ con irriverenza (“Mi sento cambiato, come una promessa elettorale mantenuta”), un po’ con l’eleganza che lo distingue: “Questo è il cuore, al suo rientro, che cerca di aggrapparsi a tutto ciò che ha lasciato, come le cose salate non fanno che accrescerne la sete”. La forma dei versi asseconda il “clima della poesia” che è fatto di orizzonti e rumori, di sole e di foschia, di granchi e serpenti, di moli e di finestre, dove lo sguardo del poeta (e del pittore) va in cerca della meraviglia e dello stupore, che è “l’ideale” definitivo. L’attesa è la costante perché “le cose perdono il loro equilibrio e vacillano sotto i colpetti della memoria. Aspetti una rivelazione, le evoluzioni dei delfini, aspetti che gli usignoli sciolgano i nodi in gola che le campane assolvano i tuoi peccati come le vele ammainate delle barche al rientro” e l’ammirazione deve giostrarsi su un riflesso continuo e improvviso che Derek Walcott descrive così: “Un quadrato di luce attraversa lentamente il pavimento dello studio. Ne invidio la pazienza”. A quel punto “la parola e l’ombra della parola fanno sì che ogni cosa sia se stessa e qualcos’altro finché non siamo noi stessi ma metafore in una lingua empirica che continua a crescere”. Il poeta avverte l’avanzare del crepuscolo (“Non mi metto mai nei casini tranne che con le onde, e presto perderemo anche quelle”), ma continua a professare la sua fede, indomito, inarrestabile: “Su queste banalità un’intera vita è stata spesa nel fulgore, eppure ci sono giorni nei quali ogni angolo di strada svolta se stesso in una sorpresa assolata, un quadro o una frase, canoe issate accanto al mercato, l’azzurro del porto, le caserme. Così tanto da fare ancora, e tutto una lode”. È il motivo finale per cui Derek Walcott ci persuade a considerarci soltanto “semplici recipienti della grazia di ogni giorno”, un verso che saluta le Egrette bianche con il sapore di una preghiera laica.
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