Nelle storie di T. C. Boyle raccolte in Se il fiume fosse whisky si trovano tutte le ossessioni che popolano la sua narrativa. Si comincia con le sottolineature alle apparenze che dominano i nostri tempi moderni con Fugu pietoso, un delizioso racconto che inquadra la sfida tra lo chef Albert e Willa Frank, critica enogastronomica impietosa e irraggiungibile. Quel tono, in perenne equilibrio tra ironia e sarcasmo, è altrettanto pungente in Amore moderno, dove l’ipocondria è il riflesso dell’esigenza di un’esistenza sterile e perfetta, comprensiva di un preservativo da usare per ricoprire tutto il corpo, onde prevenire contatti indesiderati con virus più o meno letali. Ancora più sprezzante è Via quella barba con un consulente (hollywoodiano) che non va molto per il sottile nel tentativo di riposizionare l’immagine pubblica degli ayatollah. Il titolo dovrebbe già suggerire il tenore del racconto, che si collega a La mosca umana, una short story bellissima e malinconica sulla fama e sul prezzo da pagare. Nel destino di Zoltan, un personaggio indimenticabile, e delle sue bravate da novello Houdini c’è un po’ di commedia e un po’ di dramma con Los Angeles sullo sfondo, che troviamo anche per La casa che sprofondava. Le ossessioni suburbane valgono nello stesso modo a New York e diventano l’ingrediente nascosto nel patto faustiano tra Il diavolo e Irv Cherniske, in un ambiente dove “ogni sera, verso l’ora di cena, quando un urlo lacerante fendeva l’aria del quartiere, c’era sempre qualcuno che si portava alle labbra un aperitivo annacquato e diceva, con un sospiro, che gli urlatori stavano ricominciando”. Se in un placido quartiere dove tutti si ignorano, pur conoscendosi a memoria, avvengono strani eventi soprannaturali, è dovuto al fatto che T. C. Boyle ha frequenti divagazioni psichedeliche in parallelo alla sua percezione dei personaggi. È un’immersione totale, dalla condivisione dei problemi (e sono sempre tanti) e delle sofferenze, come succede in Il berretto, ambientato in Alaska con l’ombra di un orso invadente. T. C. Boyle ha una spiccata sensibilità per il rapporto degli esseri umani con il resto del mondo animale, che è portato alle estreme conseguenze in La signora delle scimmie in pensione. Nella rocambolesca avventura con Konrad, lo scimpanzé adottivo della protagonista, Beatrice, spicca il finale sorprendente, che lascia aperto più di un orizzonte. I colpi di scena non mancano anche con Il re delle api, dove il disagio psichico si innesta dirompente in dinamiche famigliari non meno complesse. Molte convivenze hanno parecchie falle, a partire da una limitata concezione del matrimonio e vale per Il risveglio, una storia d’amore che non funziona, con l’acqua protagonista, uno degli elementi ricorrenti nel simbolismo di T. C. Boyle, così come con Per amor di pace, dove prevale la sensazione di essere “circondati”. La sicurezza e le deviazioni, le inquietudini e le idiosincrasie americane (e non) alimentano molti dei temi e dei soggetti dei racconti di Se il fiume fosse whisky che sono centrali nella visione di T. C. Boyle e troveranno ulteriore collocazione e ampliamento tra i romanzi (su tutti, e sempre consigliato, Gli amici degli animali), ma va ricordato anche Il piccolo freddo, fotografia di una reunion tra amici, come se fosse una una curiosa operazione di rilettura e riscrittura di una scena tagliata dalla sceneggiatura del Grande freddo, Marvin Gaye compreso.
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