Quando Mark Leyner scrive al suo editor, Peter Guzzardi, è chiaro che ci si addentrerà in un luna park effervescente e caotico dove succederà di tutto. La corrispondenza comincia così: “La mia vita è stata un unico, lungo incubo ipercinetico e ultraviolento. Eppure sì, sono uno scrittore. (Ma anche un addestratore di cani: Peter, ho insegnato alla mia cucciola Carmella a bere caffè nero bollente dalla sua ciotola sul pavimento!)”, e siamo soltanto all’inizio. Mark Leyner e il famigerato Team Leyner che assiste e promuove la carriera dello scrittore verso l’infinito, e oltre, si adoperano con metodi non convenzionali, per usare un eufemismo, e comunque apertamente dichiarati: “Occasionalmente tengo dei workshop di scrittura creativa. Ci vado sempre accompagnato dalla mia attempata falange di guardie del corpo bioniche, alcune delle quali armate fino ai denti e piazzate in punti strategici all’interno dell’aula e dello stabile, altre iscritte invece in incognito e presenti al corso come normali partecipanti”. Gli studenti più bravi e promettenti vengono visti come una minaccia allo status di Mark Leyner e, una volta rapiti infilandogli la testa in un sacco, sono sottoposti a un programma di interrogatori e rieducazione che prevede “la soppressione delle ore di sonno, l’esposizione alle basse temperature, la falsa fucilazione e svariate altre tecniche psicologiche”, e non è finita qui. Con Mark Leyner le parole compiono capriole che disorientano: la formula fluttua irritante e indisponente, lui è il narratore e il protagonista, l’alter ego (smisurato) e il lettore di se stesso, in spregio a ogni bon ton letterario ed editoriale. Il ritmo è martellante e trascinante a patto di non volere per forza trovare un significato o decifrare ogni singola frase perché con simboli, metafore e ogni genere di strumento di distrazione, Mark Leyner ci va pesante e la sua scrittura diventa un frullatore psichedelico che macina di tutto: l’ossessione per il corpo (comprese le reminiscenze di Mio cugino, il mio gastroenterologo, richiamato a più riprese), scrittori, attori, rock’n’roll star e altri personaggi più o meno famosi convergono (non colpevoli, non responsabili) con il suo costante affondare nella storia. È come se nuotasse e fosse l’acqua nello stesso tempo: Mark Leyner giostra le parole con una nonchalance che stupisce ancora oggi. Per restare in tema del famoso “cugino” e della sua formazione ippocratica, è come se digerisse una massa piuttosto ingombrante di segnali per poi rigurgitarla in una forma sorprendente, giocosa e brutale. Lo stesso Mark Leyner, che non si fa troppi scrupoli di sorta dice che Ehi tu, baby! è “una superba e irresistibile miscela di umorismo e indeterminate traiettorie, brulicante di tossiche creatura da farsa”. Il pirotecnico svolgersi dello stile può apparire ingannevole: c’è zapping, ci sono Ballard e Burroughs in dosi cospicue e uno humour abrasivo. L’aneddoto di come comincia a scrivere le note di copertina dei dischi che coinvolge Julianne Phillips, Bruce Springsteen e Patti Scialfa è irresistibile, ma bisogna fare attenzione perché dietro l’angolo spuntano “microscopiche e rigide creature allo stato larvale sfrecciano nel tempo come cannoli bellici catapultati in cielo e pronti ad affondare a velocità supersonica nelle fauci spalancate del mondo”. Una follia verbale inarrestabile, impietosa e fine a se stessa: inutile cercare un senso appropriato dove non ci deve essere, anche se in filigrana è chiaro che c’è qualcosa di più, la trascrizione del folle bombardamento di informazioni a cui siamo sottoposti, che sia intenzionale, oppure no. Fidatevi di Tom Robbins, che all’epoca descriveva la scrittura di Ehi, tu baby! “sintetica, radioattiva, speziata, confezionata in serie di un verdolino accattivante, un vero frappé del nostro spirito dei tempi, baby, e gustosa da impazzire”. Prima, però, leggete attentamente le avvertenze, e usate con cautela, è roba forte.
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