lunedì 14 agosto 2017

William Burroughs

Blade Runner “è un film troppo grande per stare in una sola frase”, e questo si era capito, visto che è stato un titolo ambivalente: sgusciato dalle mani dell’autore originale, Alan Nourse, passato attraverso le forche caudine di William Burroughs, ha finito per incorniciare il film di Ridley Scott ispirato, come è noto, da Philip Dick. La minuziosa ricostruzione dei passaggi, a cura di Riccardo Gramantieri, chiarisce ed esaurisce le coincidenze e le assonanze tra The Bladerunner di Alan Nourse, Ma gli androidi sognano le pecore elettriche? di Philip Dick, la sua riduzione cinematografica e l’inedita rilettura di Blade Runner di Burroughs che inghiotte la storia e la rigurgita a modo suo, tagliata e cucita, sparpagliata per le pagine, immersa nell’espressione caustica del suo linguaggio. Il film immaginato da William Burroughs non è una pellicola standard, non ha proprio nulla di convenzionale, piuttosto è inteso come un organismo a se stante, o almeno così si snoda nella breve sceneggiatura. L’ambientazione, salvo NYC invece di San Francisco, è sempre un’esplosione metropolitana, l’incubo di una città che “sembra aver subito un attacco nucleare. Intere aree in rovina, campi di rifugiati, tendopoli. A milioni hanno lasciato la città e non ritorneranno. New York è una città fantasma. Altre città sono in condizioni simili”. Una distopia in cui sono crollati uno sopra l’altro tutti i livelli di convivenza, dove gli animali sono tornati protagonisti e dove l’involuzione ha spinto una larga parte della specie umana ha portato alla clandestinità. Burroughs descrive così lo scenario in Vista di Manhattan dall’elicottero: “La sovrapposizione ha portato ad un aumento mai visto del controllo sul privato cittadino. Niente a che vedere con lo stato di polizia vecchio stile che usava oppressione e terrore, ma controllo in termini di lavoro, credito, abitazioni, benefici per la pensione e assistenza medica: tutti servizi che possono essere soppressi. Questi servizi sono informatizzati. Niente numero, niente servizio. Comunque, tutto ciò non ha prodotto quelle unità umane uniformate dal lavaggio del cervello previste da ingenui profeti come George Orwell. Al contrario, una larga percentuale della popolazione si è spinta nell’underground. Quanto larga, non lo sappiamo. Questa gente è senza numero”. Le visioni, a tratti profetiche, di William Burroughs, ritornano con maniacale dedizione a alla malattia e alla cura ricordando, prima di tutto, che “ogni terapia, ogni droga, ogni vizio qui ha il suo prezzo”. La trama del suo Blade Runner si condensa e si concentra proprio attorno all’idea che “tutto quello che ti serve è l’accesso ai farmaci” e, per naturale, estensione alle informazioni. Complotti o paranoie a parte, le sollecitazioni sono pesanti perché Burroughs individua alcuni gangli notevoli nel rapporto tra potere corrotto e costituito e farmaceutica, e li evidenzia con geniale irriverenza. Giusto per mettere in ordine e per riconoscere il dovuto a Philip Dick (così come ad Alan Nourse) va detto, per esempio, che già nel 1972, nel saggio L’androide e l’umano, ipotizzava uno sviluppo di sostanze stupefacenti (legali e/o meno) per limitare le escursioni emotive: “L’intera gamma di sentimenti quali il dolore, la rabbia, la paura e ogni sorta di sensazione intensa verranno ricondotte al di sotto di una certa soglia dalla presenza di carbonato di litio nel tessuto cerebrale. Il comportamento del soggetto diventerà stabile, prevedibile e non sarà più una minaccia per gli altri. Praticamente, questi avrà sentimenti e pensieri costanti per tutto il tempo, da mattina a sera, giorno dopo giorno. Di certo, le autorità non avranno più brutte sorprese da parte sua”. Si vedono, in filigrana, i temi di Blade Runner (in ogni versione) e, a sua volta, William Burroughs non fa che distillare e ampliare l’ossessione del controllo (delle comunicazioni e delle somministrazioni), non del tutto fuori luogo (anzi). 

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