Quando
Boston viene “esposta” a una generale devastazione, partita da
“una specie di imperativo di gruppo” filtrato dai cellullari,
Clayton (Clay) Riddell, disegnatore e sceneggiatore, sta pensando a
un regalo per il figlio, che lo aspetta a casa. Attorno a lui, “come
in un film dell’orrore” (Stephen King non resiste alla tentazione
della battuta), uomini e donne si trasformano in orde disperate e
fameliche. Per Clay, l'unica speranza è l'incontro con Alice Maxwell
e Tom McCourt che, con un ultimo scampolo di lucidità, suggerisce
ben presto la fuga: “Sono sempre stato lento ad arrivarci, ma mai
uno che non ci arriva. La città brucerà e a farsi arrostire
resteranno solo i matti”. Come pellegrini in cerca di una
destinazione che non c’è più, perché è tutto “insensato”,
partono spinti dall'istinto per la sopravvivenza e dall’amore
filiale di Clay che lo porta a sfidare la sorte (segnata) e ad
accorgersi che le regole ormai sono cambiate perché come lui stesso:
a) “Credete che tutti quelli che sono scappati si siano ricordati
di spegnere il gas?”; b) “A che cazzo serve la fine del mondo se
uno non può sfondare un fottuto steccato?”. Le domande sono
retoriche e le risposte vanno cercate nella dissertazione Charles
Ardai, professore, preside e protagonista della svolta centrale di
Cell: “Alla base, vedete, noi non siamo affatto homo
sapiens. Il nostro nocciolo è la follia. La direttiva primaria è
l’omicidio. Quello che Darwin per delicatezza non ha voluto dire,
amici miei, è che se siamo diventati i padroni del mondo non è
stato perché siamo i più intelligenti o nemmeno i più crudeli, ma
perché siamo sempre stati i più pazzi e sanguinari figli di puttana
della giungla”. Non è comunque sufficiente quando un “errore
irreversibile di sistema” genera un organismo che va oltre il
“comportamento da branco”, o da “stormo” e si muove e si
sviluppa come un virus, sintomo evidente che una parte
(considerevole) della “società tecnologica” ha già preso il
sopravvento. Solo che in Cell la forma di odio e di follia che
Stephen King chiama “Stati Unicellulari d’America”, non nasce
dalla tecnologia, in particolare dai telefoni. Avanza attraverso
quegli strumenti, li attraversa per crescere verso una dimensione
onirica e telepatica. I toni apocalittici consentono la distinzione
tra una presunta normalità (a partire dall’uso della tecnologia) e
un dubbio morale di fronte al nuovo organismo biologico perché “la
razionalizzazione era un grande sport umano, forse il più grande
sport umano, ma quella notte non avrebbe cercato di truffare se
stesso: certo che quella era la sua vita. Qualunque cosa fossero o
qualunque cosa stessero diventando, erano comunque e sempre esseri
viventi”. La distinzione, che rimane impigliata nelle pieghe del
racconto di Stephen King, non è relativa ed è parte integrante di
“un modo faceto di esprimere un piccola denuncia politica”. Gli
interrogativi restano annunciati e sospesi, un po' come il convulso
finale: Stephen King, as usual, è attaccato al nocciolo della storia
e dell'azione di Cell e l'unico, nitido avvertimento ai
viaggiatori rimane quello di Tom McCourt: “Credo che se vogliamo
avere qualche speranza di sopportare quello che ci aspetta d’ora in
avanti, dovremmo trovare la maniera di congelare per qualche tempo le
nostre sensibilità più vulnerabili”. Su questo, ormai, ci sono
ben pochi dubbi.
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