Va
cercata nella frase coniata nel 1961 da Shirley Polykoff, copywriter
dell’agenzia pubblicitaria Foote, Cone & Belding che si
occupava della tintura per capelli Clairol, “Se ho una sola vita,
lasciatemela vivere da bionda!”, la scintilla per tutti quei
“malinconici esseri convenzionali” refrattari a qualsiasi
progetto di ingegneria sociale. Era giunta l’ora di un po’ di
colore: la “gente comune” fuggiva da istituzioni e modelli
consolidati e si affrancava “dalla famiglia, dal vicinato e dalla
comunità, e creava mondi a se stanti. Questo fenomeno non aveva
alcun parallelo nella storia, specie considerandone l’ampiezza”.
A inneggiare una versione adulterata del Canto
di me stesso di Walt Whitman non
erano soltanto gli hippie, nonostante fossero la parte più
appariscente di quel decennio. Quello “spazio vuoto” venne
scoperto e occupato, in modi diversi, da anziani e coppie che
cominciavano a giocare un ruolo inedito nel tempo libero, con
sensibili variazioni nell’approccio quotidiano, dalla religione ai
costumi sessuali. Il lavoro da cronista, interpretato da Tom Wolfe
con tutto il suo stile, le sue divagazioni e la sua eccentricità è
però puntuale: non racconta come dovrebbe essere ma come è stata la
scoperta dell’io visto che “l’antico sogno alchemico era di
tramutare i metalli vivi in oro. Il nuovo sogno alchemico è mutare
la propria personalità: rifare, rimodellare elevare raffinare il
proprio io”. Su quell’onda tellurica si sono mosse, oltre alle
ineffabili leve della pubblicità, pronta a cogliere e a solleticare
i nuovi consumi, molte altre macchine più lente e goffe nel cercare
di catalogare il frutto di quello strambo flusso di coscienza
generale: “Il
quadro è sempre quello di una creatura sradicata
dall’industrialismo, compressa in metropoli assieme a gente che non
conosce, impotente contro i massicci mutamenti economici e politici:
in breve, una creatura come Charlie Chaplin in Tempi
moderni,
schiava e abbrutita, frastornata e sconfitta dalla macchina. Questa
vittima dei tempi moderni è sempre stata per gli intellettuali, gli
artisti e gli architetti una figura estremamente patetica”. Tom
Wolfe non fa sconti neanche allo stesso Le Corbusier: i
luoghi comuni sono messi alla berlina senza esitazioni, gli
stereotipi spogliati fino a svelarli per quello che sono, i modelli
precostituiti vengono scansati. La prospettiva di Tom Wolfe, che
tiene a distanza di sicurezza le opinioni, riesce a coinvolgere con
uno stile che è ipnotico e caustico. Il tono è sempre sarcastico,
irriverente, pungente. Mette in ridicolo le statistiche, le tesi e
l’invariabile
fallibilità delle teorie sociologiche perché è evidente che gli
esseri umani americani (e non solo) tendono a prendere traiettorie
bizzarre: “Per cominciare,
l’homo novus,
l’uomo nuovo, l’uomo liberato, il primo uomo comune della storia
del mondo con la tanto vagheggiata combinazione di denaro, libertà e
tempo libero, questo lavoratore americano, non si presentava nel
modo giusto”. I
presupposti non vengono mai rispettati, persino nell’ambito della
fede perché come ha notato altrimenti Harold Bloom “ridurre il
loro approccio a dinamiche socioeconomiche è utile solo fino a un
certo punto. Karl Marx è irrilevante per milioni di loro perché, in
America, la religione è la poesia dei popoli, e non il loro oppio”.
La definizione riduce e concentra con precisione accademica l’ottica
di Tom Wolfe: quella dell’io è una scoperta che smentisce tutte le
ideologie di massa e trasforma ogni singola esistenza in “un
dramma di significato universale” finché ognuno non diventa lo
Shakespeare di se stesso, salvo Tom Wolfe, che nei dubbi amletici ci
sguazza sornione da una vita.
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