In una
missiva a John Clellon Holmes del 1952, Kerouac scriveva che “se
tutte le parole umane potessero essere scritte su quest’unica
pagina, le scriverei”. Le sue lettere, raccolte da Ann Charters (in
due volumi), sono la testimonianza dei ripetuti tentativi di giungere
a quell’ambiziosa meta. Kerouac è candido e si mostra in tutte le
ambizioni (“Ho cominciato a lavorare al grande romanzo la mia
ultima chance”) e le debolezze, senza nascondersi. Contraddittorio,
stralunato (“Ho tante cose da dire che mi confondo” scrive nel
1941 alla sorella), è sempre “nel bel mezzo di folli straordinari
eventi”, spesso sottolineati dagli sbalzi di umore. Nell’agosto
del 1955, dal Messico, confessa ad Allen Ginsberg: “Mi sento allo
sbando, effimero, inconcepibilmente triste, non so dove vado, né
perché”. Sei mesi dopo annuncia a Gary Snyder, da qualche parte in
America: “Poi ci toglieremo il cappotto e distruggeremo di nuovo il
senno, e andremo al diavolo con tutto il resto, fuori dai piedi
accidenti, mangeremo e ci sarà molto di più là da dove arrivò
anche se siamo dei veri e propri poveri sciocchi immacolati”. La
logica della prima persona plurale ricorre con una certa frequenza.
In una delle prime lettere, nel 1941, scrive a proposito di un gruppo
di amici di Boston: “Siamo sconosciuti, e probabilmente non
sfonderemo mai, ma le nostre discussioni sono molto accese e siamo
pieni di stimoli intellettuali”. La definizione si presta anche per
tutti gli epigoni della Beat Generation evocati lettera dopo lettera:
per quanto parziale sia la ricostruzione della corrispondenza di Jack
Kerouac rende già l’idea della fitta rete di amicizie, di
connessioni, incroci. L’inventario comprende un ritratto di Neal
Cassady tra parentesi, “(Come al solito Neal non ha fatto niente,
proprio come nel mio sogno, è arrivato come un fulmine a Città del
Messico e come un fulmine se n’è andato con la sua erba”), uno
esplicito di William Burroughs (“Un folle genio”), l’idea di
usare Un romanzo moderno
come sottotitolo di Sulla strada,
in omaggio al “modern jazz”, Miles Davis e Billie Holiday, i
dettagli delle tappe di un vagabondo irrequieto ed entusiasta,
annoiato e innamorato, un hobo che dice di aver “chiuso” con
l’America mentre non smette nemmeno per un istante di cantarla. Se
le lettere sono messaggi, segnali di fumo, avvisi di arrivi e di
partenza, strumenti utili per continuare il viaggio (come chiedere i
soldi alla mamma), per mantenere i contatti con gli amici, e per i
resoconti degli incontri e delle avventure, nell’insieme
l’epistolario è molto più complesso di quanto appare a prima
vista perché “ci sono stati meravigliosi sviluppi ingiustificati”,
a partire dalla spontanea osmosi con i romanzi. La voce è
inconfondibile, soprattutto quando Kerouac, imbattibile negli slanci
più euforici, detta la linea senza un dubbio al mondo che sia uno:
“Impara a battere mille parole al minuto, compra due registratori,
sconvolgi le stupide leggi, frega i giudici, fomenta le rivoluzioni
dalla tua soffitta, tira fuori tutto, porta tutto avanti, in alto,
vinci, stelle. Ah, rivolgimenti, appendici, galassie, tempo,
etichette, scatenato. Sì, adesso nei prossimi settanta milioni di
anni scambiamoci di tanto in tanto lunghe folli lettere e raccontiamo
tutto quanto (come dici) e questo non porterà niente di male
accidenti”. Era il 12 ottobre 1955, da Berkeley, California, e lo
scriveva ancora a John Clellon Holmes, anche se non è difficile
immaginare che il vero destinatario fosse se stesso.
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