venerdì 28 luglio 2017

Herman Melville

Bartleby è una figura scomoda ed enigmatica, ma non così distante. La sua collocazione rispetto alla “condizione assoluta delle cose presenti”, e per estensione al ritmo convulso e perfido di Wall Street, non ha soltanto un valore simbolico. La presenza, perché “una sua qualità primaria consisteva in questo: ch’egli era sempre là, primo al mattino, costantemente durante il giorno, ed ultimo alla sera”, lo rivela un corpo estraneo e insieme un segnale d’allarme vivente. La connotazione del suo rifiuto a collaborare (reiterato, cortese, fermo) è stata indagata e messa in discussione persino dallo stesso Melville, che ricordava come Bartlebly sia “una creatura di preferenze, non di assunti”. La precisazione sgombra il tavolo dello scrivano di molte supposizioni perché è l’idea stessa di “preferenza” che è al centro del racconto di Melville. Forse non sono le motivazioni, ma l’opposizione in sé da considerare, visto che Bartleby rimane abbarbicato alla sua decisione fino alle estreme conseguenze. L’abilità di Melville è proprio quella individuata da Gianni Celati che spiegava come “il gioco narrativo consiste anche nel far cadere nel vuoto le nostre interpretazioni”. La forma della sua disobbedienza che disorienta l’avvocato, e narratore, che l’ha assunto nel ruolo di scrivano, è ancora di più un modello di coerenza, che lo trasforma in un personaggio unico. Il contorno dei personaggi secondari, Turkey, Nippers, Ginger Nut non fa altro che risaltare “quella figura, scialba nella sua dignità, pietosa nella sua rispettabilità, incurabilmente perduta!”, sentenza che, secondo Melville, segna il destino di Bartleby. E’ proprio così, anche nella lettura di Gianni Celati: “Stando al racconto, Bartleby ha piuttosto l’aria di qualcuno che non abbia niente da dire, a parte quella frase meccanica in cui concentra la sua maniera d’essere. Oppure si può pensare a una creatura della rassegnazione, che ha eliminato ogni comportamento superfluo, ed è tutta in quello che fa, non in quello che pensa”. L’idea di un rifiuto senza offesa, non una presa di posizione, quasi una forma passiva di autodifesa, eleva Bartleby in un dissidente totale, pacifico e silenzioso. Un personaggio destinato a sollevare le ipotesi più elaborate. George Perec chiamava “pazienza” la sua resistenza, mentre Gilles Deleuze sosteneva che Bartleby è più il frutto di “un divenire umano” piuttosto che letterario, il figlio di una “vocazione schizofrenica: anche catatonico e anoressico Bartleby non è il malato bensì il medico di un’America malata, il medicine man”. D’altra parte Lewis Mumford identificava in Bartleby lo stesso Melville, ma alla fine a tutti gli effetti resta la trasposizione letteraria, quella che Gianni Celati enunciava mirabilmente così: “La potenza della scrittura non sta in questa o quella cosa da dire, bensì nel poco o niente da dire, in una condizione in cui si annulla il dovere di scrivere. Ogni dover scrivere e voler scrivere è la patetica vittima delle proprie aspettative. La potenza della scrittura sta nell’essere senza aspettative, nell’essere rassegnazione e rinuncia al dover scrivere, possibilità di rimanere sospesa soltanto come preferenza”. Racconto perfetto, finale intaccabile, Bartleby è un classico che ha ancora molto da dire, anche con una frase di tre parole ripetuta allo sfinimento.

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