Fuggendo
dai combattimenti che incalzano la pianura coreana un uomo e sua
moglie trovano in un fosso un bambino ferito. Non hanno nulla,
soltanto un carro malandato, la paura e l'istinto di sopravvivenza, a
cui devono aggiungere la pietà per un bambino. L'uomo, vecchio e
confuso dalla realtà della guerra, non vuole portarselo dietro,
sarebbe soltanto un peso in più. Tra l'altro è più morto che vivo.
La donna, risoluta a non lasciarsi trascinare nella crudeltà, lo
raccoglie, lo cura, lo salva e lo nutre. Parte da lì una lunga
marcia di profughi, inseguiti dalla guerra, lontana eppure presente
in tutta la sua orrenda natura, tormentati dalla fame e convinti di
essere soltanto “giocattoli in mano agli spiriti”. Riportati a
una condizione primitiva, si ritrovano ad accendere il fuoco per
scaldarsi in una buca, usando residui di legna e arbusti secchi.
Mangiano zuppe fatte con un biscia nera strappata dal suo letargo o
erba di campo (selvatica), carne di cane randagio o pesci catturati
spaccando il ghiaccio. Spogliano i morti per recuperare i vestiti e
le coperte, lasciando sprofondare i cadaveri nel fango. Dentro la
terra ormai ci vivono anche loro: dormono nelle grotte e si
inerpicano su sentieri duri, aspri, senza speranza, tutta una fatica
tragica per scollinare, per poi vedere le valli trasformate in gironi
danteschi. I corpi bruciati che diventano nuvole puzzolenti, la marea
di profughi che compiono il viaggio al contrario ricalcando i ricordi
non meno delle impronte, le colonne di soldati e mezzi che travolgono
tutto, lasciando un “mondo piatto e vuoto. In balia di demoni
brutali”. Chaim Potok è parsimonioso nelle descrizioni, non spreca
una parola che sia una, eppure riesce a far capire quanto importante
sia un pugno di riso o il mozzo cigolante di una ruota. La drammatica
odissea si percepisce da quei dettagli e continua fino a quando “un
giorno d'estate sentirono dire che la guerra era finita, ma nella
loro vita niente cambiò”. In
quel momento l'uomo e la donna si convincono che il ragazzo ha dalla
sua parte una fortuna o una curva del destino, magari soltanto per
aggrapparsi a un motivo per per tornare al proprio villaggio, Molti
non trovano più né la casa, né il paese. Loro ritrovano entrambi,
deserti e pieni di polvere, ma intatti. Rimane la convivenza con lo
straniero, che non cambia molto, prima o dopo. Gli americani, venuti
in aiuto, sono sempre oltre il filo spinato, volano su aerei lucenti
e troppo veloci per essere visti, sferragliano senza sosta nelle
strade, lasciano vaste distese vuote e aride quando le basi cambiano
coordinate. La distanza non è soltanto geografica: c'è proprio una
differenza umana. Loro sono contadini, poverissimi, il destino,
legato alle stagioni, alla siccità, alla pioggia, alle variazioni
d'umore degli spiriti. Gli altri sono soldati, hanno disponibilità
illimitate e il senso di questa frattura si vede quando il ragazzo va
a lavorare in una caserma e scopre l'ambivalenza del rapporto, lo
sfruttamento, i piccoli furti, la corruzione, come se non ci fosse
mai una fine. A Io
sono l'argilla si
adatta la descrizione del romanzo secondo Claudio Magris che lo
definisce “un paradosso, una lancia di Achille che ferisce e
guarisce; è intessuto delle lacerazioni del moderno e insieme le
abbraccia in una nuova totalità”. Lancinante, aspro, senza mezzi
termini, Io
sono l'argilla non
lascia indifferenti.
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