martedì 29 settembre 2015

Stephen King

Tutto comincia con “quel mormorio che è il principio della leggenda”, un'atmosfera sfuggente e carica di elettricità, “un odore giallo, bagnato”: un ricordo che affiora, debole, sfumato e impreciso, eppure efficace nel trasmettere un'inquietudine di cui non si intuiscono le origini, “come guardare attraverso un sottile strato di ghiaccio, simile a quello che puoi staccare da una cisterna in novembre se prima lo picchietti lungo i bordi, guardarci attraverso e vedere la tua infanzia. E' un'immagine incerta e annebbiata e in certi punti si spegne nel nulla, ma nell'insieme c'è ancora tutta”. Stephen King è fantastico nel celebrare le suggestioni, le ombre e i misteri e, forse, per una legge del contrappasso, appare fin troppo lineare quando i mostri si rivelano per quello che sono. L'incognita è sempre più affascinante perché catalizza i dubbi, le tensioni, le emozioni, lasciando nelle zone dell'indicibile molto spazio all'immaginazione, e di conseguenza al lettore. Con Le notti di Salem Stephen King ha trovato il modello che poi ha usato con più frequenza (e con alterni risultati) fino a Revival, e oltre. Ci sono tutti i luoghi comuni e le logiche che poi torneranno a cicli più o meno regolari: la casa (infestata), il mostro e il suo servitore, la città (di provincia), il conflitto (irrisolto) tra bene e male. I mostri (in questo caso, i vampiri in dichiarato omaggio a Bram Stoker e al suo Dracula) sono più impressionanti quando non si vedono, quando sono celati o persino rimossi dalla routine, dalle abitudini e dalla noia. In quei frangenti Le notti di Salem tocca davvero più di un nervo scoperto: una smalltown che è già una città fantasma (prima dell'arrivo degli stranieri) perché viverci è prima di tutto “è un fatto prosaico, sensuale, alcolico”. La gente ascolta le conversazioni al telefono duplex (oggi sembra un reperto archeologico) e l'umanità che scopriranno i vampiri nelle loro fameliche scorribande non è meno mostruosa delle loro sembianze, di sicuro condivide un'estrema solitudine. Stephen King svela l'intreccio (non la trama: “Narrare è fisiologico come respirare; sviluppare una trama è l'equivalente letterario della respirazione artificiale”) fin dall'inizio quando la love story tra Ben Mears e Susan Norton sta sbocciando e sembra non esserci nulla che possa impedire il fiorire della felicità, se non la consolidata esperienza umana che l'orrore dissimula tra indifferenza, corruzione, avidità e altri fenomeni legati agli affari. Le notti di Salem è emblematico perché i vampiri spalancano le porte e le finestre su un villaggio, un paesaggio e attraverso i loro occhi l'America appare per quello che è, un paese di spostati. Stephen King lascia molto in sospeso e anche la più recente edizione, una sorta di director's cut con prefazione, postfazione e tutte le scene tagliate in fase di revisione, non risolve il primordiale dilemma. Pur aggiornando e sublimando le leggende e i trascorsi dei vampiri, resta incerta la loro essenza di mostri, così come è molto sbiadito il ruolo di vittime per i cittadini di Salem, che tanto innocenti non sono. L'ambiguità comprende anche un filo di ironia, per niente datata: “Resta con i piedi per terra. Il mondo va a rotoli e tu ti fai scrupolo per qualche vampiro”. E' quel tocco di classe, che fa la differenza.

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