martedì 19 agosto 2014

E. L. Doctorow

Le cronache della cavalcata delle armate condotte dal generale Sherman verso l’oceano, un’ardita mossa di scacchi che decise le sorti della guerra civile americana, sono le fonti primarie a cui attinge La marcia. I personaggi del romanzo si avvicendano a quelli storici in una ricostruzione minuziosa e coerente degli eventi bellici e, nello stesso tempo, seguendo il gorgogliare maestoso dei legami, ovvero la resistenza della vita dentro un organismo, La marcia in sé, votata alla morte e alla distruzione. A tappe forzate, “il flusso della catastrofe” attraversa fiumi e foreste, scavalca trincee e fortificazioni, saccheggia città e piantagioni, e nel corso della sua inarrestabile odissea, “il mondo veniva rifatto, ogni cosa diventava un’altra cosa: il cielo una volta di bronzo lucente, le nuvole flutti di un denso fumo nero”. L’occasione è propizia perché E. L. Doctorow possa esprimere la sua straordinaria abilità nell’orchestrare grandi movimenti di massa (in questo, un maestro) perché come dice Will, uno dei personaggi principali, “un uomo che soffre fa pena. Ma quando le urla sono un coro, non possiamo trovarci che all’inferno”. Più drammatico che epico, La marcia scorre come un fiume in piena, e gli sbandamenti delle folle e delle follie sono inevitabili perché la guerra è sempre una scena corale: “Le strade brulicavano di gente. Eppure, chi avesse osservato le processioni di uomini e carri e affusti di cannoni, carrozze, brum, calessi e calessini, avrebbe capito che quello che passava non era solo un esercito ma un’intera civiltà sradicata”. Dentro quella, come se stesse puntando una luce dedicata a ognuno di loro, E. L. Doctorow evidenzia una lunga teoria di personaggi che seguono La marcia, dai dilemmi filosofici di Wrede Sartorius ai tormenti dello stesso William Tecumseh Sherman che all’epoca scriveva: “Sono molti i ragazzi che oggi pensano che la guerra sia gloria, ma ragazzi, è solo inferno. Dovete passare questo ammonimento alle generazioni future. Penso alla guerra con orrore”. In particolare sono le sensazioni di due personaggi a rendere l’idea e, non a caso, uno è cieco e l’altro ha perso la memoria. Per Albion Simms “è sempre adesso” e per Calvin Harper “la maggior parte della gente non guarda veramente quello che guarda. Ma noi dobbiamo farlo. Noi dobbiamo guardare le cose per quello che sono”. L’ironia della sorte è, come nota E. L. Doctorow, che la possibilità di comuni soldati, prigionieri, fuggitivi di “fermarsi a riflettere su importantissimi problemi morali” mentre La marcia divora tutto e tutti resta “un’espressione della quintessenziale genialità americana”. La marcia è l’espressione della guerra non come avventura o come supremo sforzo in nome di una qualche causa, ma come “un massiccio e irragionevole furore privo di ogni causa, ideale o principio morale”. E Doctorow è anche molto coraggioso ad ammettere che “agli americani mancava qualcosa: forse il senso della coscienza umana come tragedia”. La marcia prova a restituirglielo, con tutti i limiti della letteratura e offrendo in cambio un romanzo grandioso e trascinante. 

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