martedì 12 agosto 2014

Michael Chabon

Il Brokeland Records è “la chiesa del vinile” sulla frontiera tra Berkeley e Oakland e, nonostante sopravviva nel clima e negli umori californiani, soffre l’irrimediabile crepuscolo della specie. Per qualcuno, “è solo un cazzo di negozio di dischi”, ma per i proprietari, Nat Jaffe e Archy Stallings, ovvero i protagonisti di Telegraph Avenue, in quelle ceste piene di rarità intonse e buste raggrinzite “c’è una specie di, come dire, di ideale”. Si capisce, e non ci vuole molto, perché il catalogo comprende Ornette Coleman, Miles Davis, Stevie Wonder, Count Basie, Archie Shepp, James Brown, Maceo Parker, Isaac Hayes, Curtis Mayfield, Sly Stone, Jimi Hendrix, Eric Dolphy, Ahmad Jamal, Booker T & The MG’s e Sun Ra. Quando su Telegraph Avenue si stende l’ombra del dirigibile di Gibson Goode, già campione di football diventato un volitivo tycoon, il futuro prende forma nel suo  progetto dell’inevitabile megastore, con tutto il corollario di promesse, progresso, benessere per l’intera comunità cittadina. L’ipotesi incombe sul Brokeland Records come un nodo scorsoio e per Nat Jaffe e Archy Stallings, nonché per il picaresco tran tran di clienti, l’unica canzone che risuona è It’s Too Late di Carole King. Un’era sta finendo in Telegraph Avenue e nell’aria rimane “un crepitio incessante di elettricità statica, non troppo diverso dal silenzio. Il rumore di fondo della creazione. L’implacabile piena del tempo”. Rocambolesco, ironico e colorito, Telegraph Road non è una versione blaxploitation di Alta fedeltà, come l’istinto suggerirebbe a una prima, superficiale lettura. Anche se Michael Chabon ha l’orecchio per la commedia agrodolce, percorsa da una sottile nostalgica, Telegraph Road è piuttosto un elaborato patchwork tra le manie di Quentin Tarantino, la confusione culturale del melting pot, i fumetti della Marvel, l’evoluzione dei gusti e dei consumi nelle città e nei quartieri. E’ quello che racconta Michael Chabon, anche in modo non del tutto irreprensibile: qualche ripetizione, qualche leggerezza, qualche eccesso non tradiscono il motivo fondamentale dell’infinita serie di rimandi e di citazioni, con un’ovvia preponderanza per quelle discografiche. Il senso di Michael Chabon per il vinile è chiaro perché non è solo un hobby, un’ossessione da collezionisti, così come non tutti i negozi di dischi sono stati piccole comunità, ma c’è qualcosa di importante in Telegraph Road perché spiega che nella fragile resistenza del Brokeland Records c’è “tutta una nostra teoria”, ed è quel modo di condividere la musica, il cinema, i fumetti e, in fondo, le storie, ed è proprio così perché “il punto non era il merchandising, e a ben vedere nemmeno la nostalgia. Era il quartiere, quello spazio dove il dolore comune si poteva affogare nella comune passione, attraverso discorsi che si facevano via via sempre più accademici e deliranti”. Non sono soltanto i dischi, i film, le riviste, i romanzi: è tutto quello che ci tiene insieme, in un modo o nell’altro, prima che arrivi il Gibson Goode di turno a dire che sono solo “un mucchio di pezzi rotti”.

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