C’è
una riflessione ricorrente nella narrativa di Cormac McCarthy, che sia Meridiano
di sangue o Non è un
paese per vecchi (i due
estremi dove collocare le radici a cui attinge Il procuratore), ed è rivolta a una sorta di confine
tracciato dal genere umano. Anche Il procuratore, pur nello specifico formato per la
riduzione cinematografica, lo pone in primo piano e non tanto un distinguo
morale, quando un quesito filosofico: cosa succede, quando si varca la linea
dell’accettabile? Il tema non è così immediato se anche Cormac McCarthy si è
premurato di precisarlo, spiegando che “Il procuratore è una figura della tragedia classica, un
uomo rispettabile che una mattina si sveglia e decide di fare qualcosa di
sbagliato”. Il terminale più appropriato per varcare quella soglia è oggi El
Paso e Ciudad Juárez, una distopia cresciuta a una velocità che non ha niente
di umano, in cui i personaggi sono all’apice della propria potenza, vogliono
compiere ancora una passo, verso la morte o verso la fuga. Quella sfida è proprio
il tema centrale della scrittura di Cormac McCarthy e non è, per dirlo in modo
prosaico, testa o croce tra bene e male, visto che sono già tutti ben oltre
quella fatidica linea. Cormac McCarthy mette Il procuratore nelle condizioni di alterare un equilibrio.
Il suo non è un tradimento, non è un inganno: è l’offerta di entrare in affari
con un mondo che non conosce, e le cui reazioni sembrano dettate dall’urgenza
di eliminare al più presto le variabili che disturbano. L’avviso che riceve Il
procuratore, è
lapidario, e senza alcuna garanzia: “Il mondo in cui cerca di rimediare ai suoi
errori non è il mondo in cui li ha commessi”. Il riferimento, anche perché non
esistono “coincidenze”, è anche geografico e politico: nella frontiera creata
dal nuovo ordine mondiale del libero commercio non esiste legge, la vita è
merce di scambio e, va da sé, non c’è limite alla crudeltà (tutta) umana. Il
senso del romanzo, come scrive John Gardner, è quando “la vera suspense si accompagna al dilemma morale e al
coraggio di fare e agire in base a delle scelte. La falsa suspense nasce dal verificarsi accidentale e
insignificante di una successione di eventi”. E’ l’abisso tra chi sei e cosa
cosa vuoi essere, tra il personaggio e l’interpretazione del suo ruolo. Serve
ricordare quello che diceva Antonio Machado, citato nel precipitare del finale:
“La nostra vita è tempo e nostro unico affanno le pose disperate in cui per
aspettarlo ci atteggiamo”. Il sangue si pulisce, i buchi si riparano: è
l’ambiguità la scacchiera su cui Il procuratore e tutti i suoi accoliti si muovono come
pedine di un gioco più complesso, che Cormac McCarthy lascia dov’è, al suo
posto, nell’ombra. Le forbite dissertazioni di Newton, Einstein, Omero,
Shakespeare, Michelangelo e Goethe, che suonano surreali nel clima di rozza e
spietata ferocia, appaiono infine, come giustificazioni a condizioni estreme
che non si possono più giustificare. Sono solo tentativi di fuga dialettici, ma
ormai non si può scappare, né si può tornare indietro. Non è più il border, è un
capolinea.
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