giovedì 29 agosto 2024

Nelson Algren

Galeotti, fuggitivi, vagabondi, prostitute, sbandati: Le notti di Chicago sono popolate da tutto un milieu di disperati, agonizzanti, derelitti senza meta e senza speranza, braccati, “tagliati fuori”. Gli uomini e le donne di Nelson Algren sono outsider e sono tutti prigionieri, che siano in carcere o no, di sogni, miraggi e illusioni, e di un destino ineluttabile. Il clima è teso e al limite in ogni racconto e i protagonisti sono destinati a vicoli ciechi. La disperazione è una compagnia costante, almeno quanto la violenza, espressione di altri conflitti che esplodono in scontri e combattimenti corpo a corpo. Succede già in La faccia sul pavimento del bar ovvero Troppo sale sui pretzel dove, non senza un certo fatalismo, il protagonista affronta così la realtà quotidiana: “Mentre fumava la prima amara sigaretta del mattino, prendeva la fiera risoluzione di non darla vinta a nessuno, in tutta la giornata, e di non aver pietà per nessuno, come nessuno ne aveva avuta per lui”. I pugni assumono un valore “finché, a ogni nuovo colpo, ciascuno si sentì vendicato del duro colpo che la vita era stata per lui”. La rissa è soltanto l’inizio e anche la boxe è giusto una versione edulcorata per ricordare che c’è un “duro prezzo” da pagare. L’apologia è quella declamata in Pero venceremos, “perché quando la vita è fatta di momenti presi in affitto e di centimetri misurati uno per uno, allora ogni alba porta impressa la sigla di un dollaro e il dollaro di ieri non serve più a riscattare il giorno che passa. Allora ogni ora del giorno dev’essere comprata col sudore della paura e ogni pasto dev’essere consumato a costo di privazioni, come un falso amico che stia seduto dall’altra parte del tavolo e conti ogni forchettata: allora avviene che le cose più semplici diventano infinitamente preziose e nulla, neppure un grano di sale, ti viene dato per niente”. Più di ogni cosa, la necessità impellente è un luogo da chiamare casa, “un posto diverso, un posto felice, luminoso”, come dicono in La casa dei fratelli, ma se anche “c’erano buone probabilità”, dentro le mura il più delle volte si consuma un vuoto. L’alcol, la droga e i fallimenti sono un circolo chiuso e la tossicodipendenza è una fitta coltre di nebbia che i personaggi in in Progetto di partenza raccontano così: “Il tempo felice era trascorso per non più ritornare. Il tempo che non era mai esistito, e gli amici che non c’erano mai stati, tutto se n’era andato con le mattine che erano state così grigie e le notti che erano state così lunghe”. Il buio sembra propagarsi “in eterno” e a Nelson Algren non resta che dare voce ai suoi “rain dogs” così come vengono elencati in Il capitano fa brutti sogni: “E di nuovo arrivano gli uomini, gli spavaldi e i pentiti, gli sconfitti e gli arroganti, i ladruncoli da quattro soldi e i guappi sprezzanti, tutti avanzano, insaccati in sé stessi, in mezzo a uno scroscio di luce, come uomini che camminano in mezzo alla pioggia. I paurosi e gli esitanti, i remissivi e gli sfrontati, i tipi balzani e i pivelli di primo pelo, i vagabondi dal cuor contento e i veterani inaciditi”. Nel complesso, i racconti sono brevi istantanee, forti e precise nella cornice urbana, da Chicago a New. Orleans, dove l’ineluttabilità delle metropoli americane intorno alla metà del ventesimo secolo è riportata senza particolari mediazioni. Sono tutti tutti sull’orlo di un disastro e Nelson Algren, a suo tempo definito il “poeta dei bassifondi”, ci conduce a conoscere Il diavolo in Division Street, che è una ghost story con un suo senso nell’evidenziare la promiscuità e I ragazzi che seguono “tutti i rumori della notte sembravano come rumori che si allontanassero verso l’ignoto, sempre, tutta la notte”. Gli ultimi tentativi di fuga dalla dissoluzione in Da Kingdom City a Cairo e In fede mia comprendono maldestre rapine e passaggi obbligati sui treni merci, come unica alternativa al sottobosco di miseria, ma come direbbe qualcuno non c’è nessun posto dove correre, nessun posto dove andare.

venerdì 23 agosto 2024

Phil Klay

Ci sono guerre e guerre: l’Afghanistan e l’Iraq, e poi finite (male) quelle, resta comunque la Colombia, un luogo dove la vita è appesa a  un nonnulla. La condizione a vario titolo di Valencia e del padre, Juan Pablo, di Mason, Diego, Lisette, Jefferson, Abel, Luisa, Alma, Janvier anche nel contesto di Una buona guerra è quella che Phil Klay identifica così fin dall’incipit: “La gente pensa che una persona sia ciò che vedi andarsene in giro in carne e ossa e sangue, ma è un’idiozia. Carne e ossa e sangue esistono, ma esistere non significa vivere, e carne e ossa e sangue da soli non fanno una persona. Una persona è ciò che succede quando c’è una famiglia, e un paese, un posto dove sanno chi sei. Dove tutti quelli che ti conoscono tengono in mano un piccolo specchio invisibile, e in ciascuno specchio, tenuto in mano da familiari, amici e nemici, appare un riflesso diverso”. Lo schema essenziale, che prevede la convergenza dei protagonisti da posizioni molto distanti, e per certi versi incongruenti, non è di sicuro una novità, però è funzionale a inquadrare e a dipanare la complessità della trama di Una buona guerra. La costruzione di Phil Klay è per tre quarti meticolosa e dettagliatissima, per poi precipitare con il susseguirsi degli eventi nella parte conclusiva, che subisce un’improvvisa (per quanto non imprevedibile) accelerazione, compreso il lungo epilogo finale. L’articolazione tiene conto delle leve politiche, economiche, militari, criminali e di tutti gli interventi armati in difesa di interessi più o meno legittimi. Dopo l’11/9 è tutto giustificabile e sono tutti in cerca di Una buona guerra da poter raccontare. La Colombia e per estensione gran parte del Sud America hanno sufficienti sfumature per un’intera enciclopedia e provare a definirle è già un’impresa. Phil Klay conosce bene il sovrapporsi di finalità tra nazioni, governi, eserciti e segue con scrupolo gli eventi che provocano i suoi personaggi. È una reazione a catena e riesce a rendere un’idea complessiva grazie a un immane lavoro di ricerca che l’ha portato anche a discernere gli interessi e le ingerenze degli Stati Uniti sul campo. In questo senso Phil Klay sfrutta l’esperienza personale già narrata nei racconti di Fine missione, ma Una buona guerra sviluppa tutta una trama molto più ambiziosa. Quando i diversi protagonisti vengono infine a contatto, le forze che hanno richiamato, smosso o soltanto evocato si mostrano con tutta la loro violenza e così rivelano i destini a cui vanno incontro. Lo sforzo è ripagato: La buona guerra ci costringe a guardare dove di solito non è né lecito né indolore. L’organizzazione di Phil Klay è diretta a evidenziare la fittissima ragnatela di connessioni, convivenze e congiunture tra entità diverse: militari e paramilitari, narcos e guerriglieri, governanti locali e nazionali, giornalisti, missionari, tutti visti con estrema precisione alle prese con i propri obiettivi. Si va dal minimo della sopravvivenza quotidiana al controllo geopolitico di parti del territorio o di un’intera nazione. Ogni mezzo è consentito: dall’efferatezza delle torture alle minacce più o meno velate, dalla corruzione (endemica) ad armi sempre più sofisticate e micidiali, da strumenti tecnologici e informatici all’avanguardia a rituali ancestrali. Il patchwork, che pare inestricabile, è assemblato da Phil Klay con grande lucidità, senza alcun moralismo, e scorre nonostante l’urticante realtà che racconta e su cui è basato: l’intricato tessuto che sottintende ogni guerra, che, buona o no, resta l’espressione prima e ultima della volontà del potere di tutelarsi e procrastinare lo status quo, costi quel che costi. Impegnativo, ma necessario.

mercoledì 21 agosto 2024

Sly Stone

L’ossessione per il ritmo che si risolve nell’equazione “prendere tempo, trovare il tempo” è una costante irrinunciabile per Sly Stone ed è anche la forza propulsiva del suo memoir. Una danza con la propria storia che comincia corteggiando la memoria: “Ripercorro il mio passato, le parti di tempo che ancora conservo e quelle che sono scivolate via. Riesco ancora a sentire una nota saltare fuori da un piano elettrico nel 1966. Riesco ancora a vedere l’orlo di un vestito sollevarsi nel 1970. Riesco ancora a sentire il calore delle luci sulla mia faccia mentre salgo sul palco nel 1972”. Sly Stone non è politically correct e non cerca nemmeno di edulcorare fatti, vicende e cronache perché qui dentro c’è la musica, la droga, il sesso, la vita vera, danni compresi. Il racconto è spontaneo, naturale e senza filtri o censure: Sly Stone si concede con generosità a raccontare la formazione della Family, il confronto con l’industria discografica, i successi e i fallimenti. Proprio come una delle sue canzoni, si snoda sinuoso e sincopato con un sottile senso dell’umorismo che non viene mai a mancare, anche nei momenti più drammatici (e ce ne sono un bel po’). Si accontenta di riordinare ricordi che non sempre sono precisissimi, ma non è nemmeno nell’intenzione ricalcare una biografia ordinata ed elegante. Il racconto però procede spedito, senza intoppi, “un po’ differente ogni sera, sempre nascosto, dalle ore piccole alle prime luci del mattino” collocando le ricostruzioni di Sly Stone nel contesto storico e sociale: dagli inizi in veste di conduttore radiofonico alle prime formazioni, dagli esordi discografici a Woodstock, dai successi a riconoscimenti tardivi. Sfrontato, a tratti gergale, per scelta e per necessità, come ammette Sly Stone: “Ho fatto una dieta verbale cercando di mettere in ordine determinate informazioni di cui ho bisogno per rimanere il più possibile vicino ai fatti e non essere depistato da qualche fenomeno da baraccone”. Non concede nulla all’ipocrisia e narra gli incontri e i legami con Bobby Womack, Michael Jackson, George Clinton, Bootsy Collins, e, con un certo candore, apre le porte su quello che il più delle volte viene rimosso o sotterrato. Giunto alla maturità degli ottant’anni Sly Stone non ha nulla da nascondere e gli va riconosciuto un bel coraggio nello svelare trucchi e misfatti delle etichette discografiche e dei promoter, ma anche i limiti di una vita in balia di sostanze e appetiti fuori controllo. Come è facile immaginare ne succedono di tutti i colori: arresti, fughe, colpi di pistola, eccessi e disastri, avvocati e tribunali, la lunga mano del fisco che lo insegue, galera e rehab. Bisogna dire che Sly Stone non si è fatto mancare nulla nel suo istintivo affrontare la vita e, per quanto colorite e saltellanti, le sue rievocazioni non sembrano avere secondi fini o ambiguità di sorta. È la musica, l’ancora di salvezza, l’ultima spiaggia di una traversata burrascosa, il limite che Sly Stone affronta con sincerità. È una bella corsa attraverso uno stile che ha rappresentato moltissimo per la cultura afroamericana in generale e per l’hip-hop in particolare. Non è lui a dirlo, ma Greil Marcus in Mystery Train quando spiega che: “Il sound della band era caratterizzato da un’incredibile libertà. Era complesso, perché la libertà è complessa; folle e anarchico, come il desiderio di libertà; cordiale, sensibile, affettuoso e coerente, come la realtà della libertà. Era inoltre una grande celebrazione, una grande affermazione, una musica dall’infinito humour e dall’infinita gioia, come una fantasia di libertà”. È proprio la “rivoluzione ritmica” come la definiva Rickey Vincent in Funk! e qui la sentite trasposta in prima persona, e vi farà ballare anche così.

giovedì 8 agosto 2024

Stephen King

Lo scrittore in seria difficoltà, se non in pericolo di vita, è un soggetto che ricorre una tantum nella bibliografia di Stephen King, basti pensare ai protagonisti di Misery e di Shining. In Mucchio d’ossa, Mike Noonan è un rappresentante della categoria particolarmente tormentato: sua moglie è morta all’improvviso, l’ispirazione si è inaridita rapidamente e si ritrova incastrato tra mura stregate. Quando decide di trasferirsi nella casa di villeggiatura sul lago, in un’area tipica del New England, è costretto a misurarsi con “la singolare impollinazione incrociata tra sogni e fatti del mondo reale”. Dalla classica tavola calda ai sentieri lungo le rive, il territorio yankee di Mucchio d’ossa circoscrive una comunità provinciale e ristretta, in apparenza cordiale e premurosa, ma che nelle pieghe della storia locale nasconde un segreto atroce. Stephen King sa che “uno scrittore è un uomo che ha insegnato alla sua mente a comportarsi male” (e sembra quasi scusarsi perché lo ribadisce in continuazione) e Mike Noonan avverte fin dall’inizio che qualcosa nell’equilibrio tra l’immaginazione e la vita normale è andato perduto: “Ricordo invece una sensazione che avevo già avuto laggiù, specialmente quando percorrevo quella strada da solo. Era la sensazione che la realtà fosse sottile. Io credo che sia sottile, sapete, sottile come il ghiaccio sul lago dopo il disgelo, e noi riempiamo la nostra vita di rumore e luce e azioni per nascondere a noi stessi quella sottigliezza”. Superata quella linea, basta l’incontro fortuito di Mike Noonan con una bambina e sua madre per far collassare uno dopo l’altro gli strati di cliché di cui è composto Mucchio d’ossa: una storia d’amore (anche un paio, giusto per non farsi mancare niente), una ghost story (ma qui ad un certo punto diventano tutti fantasmi), uno spruzzata di legal thriller (con tanto di omaggio a John Grisham), persino un po’ di etnomusicologia nel raccontare le gesta di una sorta di Robert Johnson al femminile che sarà via via più importante ai fini della trama, che è bella intricata, per non dire contorta. Stephen King preso dall’entusiasmo e/o ipnotizzato dalle sue stesse creazioni non risparmia e ci mette un po’ di tutto per ridefinire i confini della realtà e dei mondi paralleli che Mike Noonan, inevitabilmente, andrà a sollecitare. Le presenze, la telepatia, l’energia psichica, gli incubi, il sonnambulismo, i poltergeist, l’antropomorfismo che crea uomini, donne e mostri dietro ogni ramo di betulla rendono Mucchio d’ossa un groviglio eccessivo e prolisso, anche se la storia resta avvincente tra blues, spettri, avvocati e fuochi d’artificio assortiti, inclusi i Beach Boys quando cantano Don’t Worry Baby. Stephen King a volte riesce a essere trascinante, a volte no: la capacità di creare empatia per i personaggi (ce ne sono un bel po’, reali e non) è intatta ed efficace, ma ci sono un bel po’ di ripetizioni, come se cercasse di convincerci con la forza. Lo stesso vale per l’eccesso di teatralità, mettiamola così, nella parte conclusiva: l’apocalisse finale, con tanto di tempesta, ponte pericolante, battaglia all’ultimo sangue e colpi di scena a raffica, sembra destinata ad avvalorare, a furia di effetti speciali, di aver visto qualcosa che i più non riescono a vedere. Questa è la natura del suo gioco e lo confessa attraverso Mike Noonan quando dice che gli “interessa sapere quel tanto che basta per poter mentire in maniera colorita”. Un po’ di confusione è da mettere in conto e Mucchio d’ossa è proprio come un hamburger imbottito di tutto, gustoso e abbondante, ma si fa fatica a capire che sapore ha.