John O’Hara invita a guardare dal buco della serratura, dentro un vicolo buio o in un club all’ora di chiusura. La discrezione va messa da parte, il voyeur scruta in abissi invisibili a occhio nudo. Solo che i racconti di The New York Stories, coprendo un periodo dal 1936 al 1966, aprono uno squarcio importante della storia americana del ventesimo secolo. I protagonisti sono sfuggenti, ombrosi, sempre a rischio, con una svolta dietro l’angolo che li attende: la precarietà è il denominatore comune, ma incorniciata in uno scenario foderato di velluto. I piccoli drammi borghesi, i tre matrimoni, i due cani e la bruciatura di sigaretta in Agatha, per esempio, bastano e avanzano a fornire la trama della storia. Per La cervellona è un licenziamento, in Di solo pane, sono sufficienti padre e figlio, Willie e Booker Hart, a una partita di baseball ed è Lo smidollato a spiegare che “Be’, quando si cade, si cade. I dettagli possono variare da un caso all’altro, ma in sostanza è sempre la stessa storia”. I particolari sono congiunzioni tra racconti, i dialoghi sono sferzanti, sia che riguardino un incidente a sfondo razziale in Ellie (siamo nel 1946) o Una serata in famiglia infestata da troppi martini (l’alcol è onnipresente) o i codici di comportamento espressi da Harrington & Whitehill: “A New York non puoi indossare la stessa camicia per due giorni di fila, non se fai l’impiegato”. I racconti appaiono monchi, con il finale lasciato in sospeso, come se toccasse al lettore completare l’opera, impresa necessaria in Ultimo, ultimo spettacolo, che si regge sui ricordi della guerra e di Londra, così come in Spirito sportivo, dove John O’Hara si addentra nel sottobosco malavitoso di New York seguendo le gesta di personaggi più consumati che annoiati. Sono il riflesso di una civiltà decadente, dove La carriera pubblica del signor Seymour Harrisburg ha un sussulto, giusto la fama di quel quarto d’ora, perché coinvolto in un caso di omicidio. John O’Hara ha una percezione acuta, a tratti eccessiva, degli ambienti, dei movimenti, delle figure e dei momenti. La sua ossessione dipende anche dal fatto che, come si dice in A vita privata “ogni giorno recitano la stessa commedia”. Le voci si distinguono nitide, le New York Stories sono definite da una cornice teatrale, e, non a caso, attingono spesso al mondo dello spettacolo ovvero dallo showbiz, come lo chiama John O’Hara. Tra John Barton Rosedale. L’attore degli attori o Joan Mamford che in Chiamami, chiamami attraversa la città per rifiutare una piccola parte o l’attrice un po’ avanti negli anni (Hollywood è un ricordo nelle fotografie) e la figlia di un antico fidanzato che si presenta già ubriaca in Posso rimanere qui?, è una processione di carriere che sono arrivate ai titoli di coda. Gli incontri, i drink e le fitte conversazioni sono solo tentativi di inseguire vite che scompaiono, si dissolvono o sfumano nei rimpianti. Nel migliore dei casi la gente delle New York Stories è intrappolata al bancone come in The Nighthawks di Edward Hopper, e il silenzio è la fine. Così la partita con John O’Hara è a punti: cita Henry Miller, H.G. Wells, Oscar Wilde e i luoghi comuni americani vengono disintegrati uno dopo l’altro, senza alzare la voce, con elegante distacco. Un metodo che diventa ben presto riconoscibilissimo: una volta seguito il suo sguardo, si resta ipnotizzati.
Nessun commento:
Posta un commento