Viviamo in “un tempo governato da contraddizioni”, che è anche un “tempo di attesa, di azione sospesa” e in attesa che un “tempo propizio” si riveli “come un’azione compiuta”. Il tempo è tutto ed essendo Averno una destinazione a suo modo definitiva (è il lago di origine vulcanica nell’area napoletana che veniva considerato l’ingresso negli inferi), Louise Glück gli si avvicina con misurata cautela, levigando le parole e i versi, orientandosi con premura nel delicato equilibrio tra la forza dell’immaginazione e la pratica urgenza dell’osservazione. È evidente già in Ottobre, dove scrive: “Ciò che altri hanno trovato nell’arte, io l’ho trovato nella natura. Ciò che altri hanno trovato nell’amore umano, io l’ho trovato nella natura. Molto semplice. Ma lì non c’era nessuna voce”. Il rapporto tra natura e arte, una costante nella poesia di Louise Glück, si fa così determinante anche in Averno che secondo la postfazione di José Vicente Quirante Rives “è un libro di poesie profondamente femminile se per femminile intendiamo anche il principio della vita. Averno è il libro di Persefone, di lei e delle sue declinazioni. Averno diventa metafora dell’inferno che prima o poi tutti visitiamo, il luogo dove si entra ragazza e si esce donna ferita per sempre. Ascoltare la natura per silenziare la violenza della propria mente”. Il suono riporta la notizia che “le canzoni sono cambiate, ma davvero sono ancora assai belle. Sono ridotte a uno spazio minore, lo spazio della mente. Sono cupe, ora, di desolazione e angoscia”. È lì che Averno si colloca in una posizione per sentire, sapendo che “eppure le note ricorrono. Sono stranamente sospese in previsione del silenzio. L’orecchio ci si abitua. L’occhio si abitua alle sparizioni”. Dall’elemento naturale e mitologico, ci si inoltra nelle esigenze e nei tormenti individuali perché proprio come dice Persefone l’errante “i personaggi non sono persone. Sono aspetti di un dilemma o conflitto”. E lo si vede ancora in più in Prisma, che, in definitiva, “alcuni finali erano tragici, quindi accettabili. Tutto il resto era un fallimento”. L’estrapolazione di José Vicente Quirante Rives è ancora una volta un’utilissima guida in questo ulteriore passaggio: “I versi di Glück sono la dimostrazione di quanto raccontare il dolore può alleviarlo. L’alchimia prodigiosa, il paradosso che fa spesso del canto l’unica via d’uscita della tragedia. Mentre canti non sei morto, sembra dirci l’autrice dal suo angolo, perché Glück non è una poeta che va incontro al lettore, e men che meno si esibisce per conquistarlo. Lei recita a bassa voce parole scarne di sopravvivenza”. È una descrizione che trova conferma nelle parole stesse della poetessa, quando dice che “ho cercato di essere accurata in questa descrizione, caso mai qualcun altro mi segua. Posso testimoniare che quando il sole tramonta in inverno è incomparabilmente bello e il ricordo di esso dura a lungo”. Seguendo la natura circolare del lago in sé e dei cicli delle stagioni, Averno ritorna agli inizi primordiali proprio lì dove “siamo ciascuno di noi, quello che si sveglia prima, che si scuote prima e vede, là nel primo albore, lo sconosciuto”. La finestra aperta non spalanca soltanto un intervallo verso l’immediato orizzonte, ma anche sul tempo che passa e riesci “a vederne un pezzo” perché ammette la stessa Louise Glück in Paesaggio “vivevo nel presente, che era quella parte del futuro che potevi vedere”. Averno è un invito a guardare oltre, più lontano, più a fondo, e senza la necessità di raggiungere nulla.
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