All’alba dell’11 settembre 2001, Mike Davis riflette sulle paure e sui disastri incombenti, risalendo alle loro origini nel finale “con botto” del ventesimo secolo, lungo tutto l’arco della cosiddetta guerra fredda fino ai bombardamenti a tappeto di Berlino. Un allineamento di fattori, spesso (in apparenza) incongruenti, che hanno comportato una radicale modifica degli ambienti urbani e non, a partire dai poligoni nel deserto dello Utah e del Nevada dove gli esperimenti con le armi atomiche, chimiche e batteriologiche hanno generato mutazioni fino alla generazione di intere città dedicate al “complesso militare-industriale” (la definizione è di Eisenhower, va ricordato), come San Diego. Uno dei primi luoghi, fa notare Mike Davis, in cui sfociarono le rivolte giovanili contro uno status quo sempre più cinico e oppressivo perché “la vera sala macchine degli anni sessanta, sia politicamente che culturalmente, non fu il campus universitario ma il ghetto urbano”. Sarà così nelle Riot City, Los Angeles soprattutto, perché “la voglia di libertà, per quanto confusa e non articolata, diede dignità e un senso storico alle nostre piccole ribellioni e, nello scontro con lo stato di polizia delle periferie, generò una profonda avversione per gli arbitri dell’autorità. L’antiautoritarismo, tendente a un nuovo romanticismo della rivolta e della disobbedienza, fa davvero il sostrato culturale vitale degli anni sessanta”. L’analisi di quel particolare segmento storico è ribadita altrove. Mike Davis parte sempre da dati sostanziali: chi vive (nelle città) e come ci vive. Il suo punto di vista non è a sostegno di una qualche teoria, piuttosto un’osservazione molto acuta e approfondita della realtà. Succede per tutti i temi trattati in Città morte. La disanima dei bombardamenti nella seconda guerra mondiale parte dall’illustrazione degli esperimenti fatti nel deserto americano per provare l’efficacia del napalm e di altri esplosivi su meticolose ricostruzioni, compreso un modello in scala naturale di un intero quartiere berlinese in tutti i suoi particolari. Lo stesso scrupolo è dedicato alla comprensione delle faide tra gang a Los Angeles lette superficialmente dall’opinione pubblica in chiave etnica e riproposte invece in termini di divario di classe, sottolineando il peso delle fratture architettoniche. Nella “storia naturale” delle Città morte, Mike Davis collega aspetti (solo in apparenza) distanti tra loro, ma alla fonte di tutto ci sono gli scompensi urbanistici e ambientali. Se “Berlino si presenta tutta sparpagliata”, come dice Günter Grass e “Las Vegas è il capolinea della storia del West, la fine della pista”, dove il gioco d’azzardo e le scommesse edilizie si sovrappongono, il conto da pagare si presenta poi in termini di disastri che vengono spacciati per naturali, ma che sono verosimilmente indotti dalla miopia dell’uomo e dall’invadenza spietata del mercato. Non c’è dubbio che siano “tempi strani” e dipende dal fatto, come precisa Mike Davis, che “la natura tende a spezzare le sue catene: scova i punti deboli, le crepe, i difetti, anche un solo puntino di ruggine. Le forze a sua disposizione vanno dai potenti uragani ai batteri invisibili. A ciascuna estremità della gamma, le energie naturali sono in grado di aprire squarci che possono disfare velocemente la trama culturale. Di conseguenza, le città non si possono permettere di lasciare che la flora e la fauna, il vento o l’acqua si muovano liberamente. Il controllo ambientale richiede continui investimenti e una manutenzione sistematica: sia che si tratti di costruire un sistema di prevenzione delle alluvioni da molti miliardi di dollari o semplicemente di estirpare le erbacce del giardino”. Gli scenari delle Città morte non sono ipotesi, paranoie o incubi, sono realtà concrete frutto di un modello a senso unico ovvero “una politica di bancarotta ambientale e sociale”. Mike Davis lo diceva (lapidario) quasi vent’anni fa, ma oggi, più di allora, è difficile da smentire.
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