lunedì 28 maggio 2018

Sam Shepard

Fin dalle prime battute che aprono Quello di dentro, Sam Shepard ammette che “il tempo ci ha sbattuti qui come naufraghi, senza sentimento”. La collocazione, in apparenza indefinita, di un esilio che non è soltanto geografico, diventa ben presto chiarissima: è il paesaggio della solitudine umana, della strada (onnipresente), di movimenti animali impercettibili in uno scenario immobile, di istantanee dove Dodici ettari di polvere e serpenti definiscono il contorno di uno scenario brullo, asciutto e arido. In una parola, il deserto, con la notte che cala come un sipario. Incastonato nella cornice del Sudovest americano, Quello di dentro è un compendio di tutta la scrittura di Sam Shepard. Se la lingua lineare ed essenziale nel vocabolario, aspra e tagliente perché sagomata dal vento, è ormai una portentosa consuetudine, l’inseguimento di quella “beatitudine estetica” richiamata citando Nabokov è fatta di una scrittura rarefatta, monca, costruita a brevi flash: un “diario di lavorazione” che si svolge tutto intorno al ruolo delle tre (principali) donne che hanno attraversato la sua vita. I riflessi autobiografici fanno parte di quella che Patti Smith chiama “l’oscillante focalizzazione del narratore” e che porta Sam Shepard a confrontarsi con un’alternanza di forme distanti e contrastanti: segmenti composti soltanto da dialoghi, porzioni che sembrano parti di sceneggiature teatrali, visioni e allucinazioni e poi un lungo rosario di brevi riquadri di contemplazione e appunti di viaggio, nello spirito (intramontabile) delle Motel Chronicles. È plateale nel ricordare la figura del padre: già pilota di bombardiere, taciturno, sempre intento a grattarsi le ferite di guerra sulla nuca, amante della (fin troppo) giovane Felicity, è l’ombra enigmatica che incombe su Sam Shepard. L’elenco dei rimpianti è notevole, eppure Sam Shepard lo snocciola con nonchalance, costruendo attorno a quel rapporto irrisolto una sorta di lungo addio misurando le parole come se fossero la benzina di un viaggio in riserva, come se le abbandonasse al loro destino, dopo averle corteggiate, vezzeggiate, coltivate, accudite. L’ordine del giorno è una pagina bianca, “il futuro è congelato” e l’esercizio della scrittura porta a dilatare i tempi, a rimandare le rese dei conti, a lasciare sfumare le promesse, le alleanze, le abitudini e le necessità di quella creatura invisibile chiamata amore in “uno sfregio di luce” o, più spesso, nell’attesa di qualcosa che si agita nel crepuscolo, o all’alba. La deriva è inarrestabile: Quello di dentro vede la partenza della moglie, a cui rimane legato da una conversazione surreale, e la presenza di un’imitazione di Felicity, un’altra ragazza che segue Sam Shepard passo per passo ed è colta da un’epifania sul set di un film dal budget irrisorio, dove rimane sorpresa dall’incapacità di distinguere tra la finzione e il resto. Rimane soltanto una domanda, esplicita, diretta, inequivocabile: “Come fa la bellezza a intrufolarsi qui?”, e la risposta va cercata un po’ dentro e un po’ fuori, dove “tutti siamo muovendoci insieme in qualche luogo”. La destinazione è bene che rimanga sconosciuta perché come scrive Patti Smith: “La realtà è sopravvalutata. Quello che resta sono le parole scritte su un panorama che si dipana, vestigia di fotogrammi polverosi staccati dalla memoria, trenodia di voci trascorse che attraversa la pianura americana. Quello di dentro è un atlante che si aggruma, calcato dagli stivali di qualcuno che d’istinto, a occhi aperti, marcia lungo la via delle sue strade misteriose”. Da conservare con cura, come il manuale delle istruzioni di qualcosa che è andato perduto, ma che sappiamo che c’è ancora, laggiù, da qualche parte, dove il suono non trova ostacoli.

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