martedì 7 aprile 2015

John Cheever

Le lettere di John Cheever sono un’operazione a cuore aperto. Anche se sono particelle variopinte di un epistolario molto sui generis, riportano, in fondo, a un’altra versione dei diari. S'intravede Una specie di solitudine esponenziale attraverso la corrispondenza, senza il ritocco, il filtro, il decoro. Una ruvidità riassunta nell'idea che “un giorno scriverò tutto quello che so sugli uomini su un pezzo di carta e lo brucerò nel camino”. La distanza non impedisce a tutte Le lettere di puzzare dei tormenti e delle contorsioni di una vita difficile che si evolve in una confessione immediata, cruda, a bruciapelo; senza mediazioni, senza freni, senza niente. John Cheever ha un rapporto ambivalente con la famiglia, con la sessualità, con la letteratura, con l’alcol, con il resto dell’umanità, con i colleghi, con la vita, con tutto. Un ondeggiare che giustifica così: “Di tanto in tanto comprendo l’ostilità del mondo, ma si tratta perlopiù di apprensione”. Non è solo quello. E' irriverente nel commentare il Nobel prima a William Faulkner, poi Saul Bellow, si dilunga con William Styron, Allan Gurganus, John Updike fino ad Allen Ginsberg e Jack Kerouac di cui storpia i nomi. Appartengono ad altre strade, nonostante sia “infestato dall’adolescenza” (magnifica definizione) quanto e come loro nonché da quella che John Cheever chiama “l’erogazione dello scotch”. Anche la relazione pericolosa con bottiglie e bicchieri (di troppo) rimane nell'ambito del chiaroscuro e tra Le lettere si scova un'appropriata riflessione, persino accorata nella sua tremenda onestà: “C’è una somiglianza spaventosa tra l’euforia dell’alcol e l’euforia della metafora, la sensazione che l’immaginazione sia sconfinata, e talvolta sostituisco o prolungo una con l’altra”. La sofferenza è palpabile quando John Cheever si arrampica sulle motivazioni intime della scrittura. Non è soltanto la palese avversione per i racconti (eppure ne scriverà a dozzine), ma anche il fragilissimo equilibrio tra “l’impressione di essere immerso in un’occupazione inutile, come il ricamo” e un nuovo inizio perché, racconta sempre John Cheever, “nel frattempo ho iniziato un libro che, ne sono convinto, si risolverà in qualcosa di buono. Da un sacco di tempo mi tenevo alla larga da qualcosa di esteso, nella convinzione che il romanzo (e la semplice definizione ha un che di negativo) fosse stato creato in buona misura da e per la crescita e il declino di una classe alla quale gli uomini della mia generazione sono estranei. Le nostre vite non sono estese né costanti né ordinate. I nostri personaggi non moriranno a letto. La forte sensazione del tempo già trascorso e di quello che se ne sta andando, sensazione che è forse l’unica peculiarità spiegabile e commendevole del romanzo, non ci appartiene. Le nostre vite non sono storie lunghe e ben raccontate. D’altra parte ciò non costituisce una limitazione. Alla resa dei conti può portare a scoperte eccitanti”. Le rivelazioni valgono la pena di scavare tra una missiva e l'altra, schivando lamentele e angosce, si scopre John Cheever convinto della sua natura e dei suoi mezzi: “Non conosco piacere più grande o quasi di un’opera di narrativa che intrecci eventi disparati affinché entrino in relazione e suffraghino la sensazione che la vita è di per sé un processo creativo, che ogni cosa si sovrappone all’altra per un motivo preciso, che quanto va perduto in un’esperienza viene rimpiazzato in quella successiva, e che noi abbiamo il potere di dare un senso a ciò che accade”. Le lettere contengono miriadi di altri dettagli, dalla pioggia di Roma ai boschi di Yaddo, e se costituiscono la metà oscura e vitale di Una specie di solitudine, sono anche l'espressione più sincera, disarmante e concreta di John Cheever: “L’impulso è quello di portare notizie liete a qualcuno. Per me, il senso della letteratura è il senso del dare, non dello sminuire. Oserei dire che non conosco piacere più grande o quasi di un’opera di narrativa che intrecci eventi disparati affinché entrino in relazione e suffraghino la sensazione che la vita è di per sé un processo creativo, che ogni cosa si sovrappone all’altra per un motivo preciso, che quanto va perduto in un’esperienza viene rimpiazzato in quella successiva, e che noi abbiamo il potere di dare un senso a ciò che accade”. Tradotto, con più tranquillità: “Penso che portare a termine un romanzo sia una conquista grandiosa”. Post scriptum, un po' più prosaico, per rendere omaggio anche all'altro John Cheever: “Le mie scoregge di questi giorni ricordano il fischietto di un vigile, è vero, ma il dolore è lieve e trovare un taxi non è più un problema”. Grandissimi, entrambi.

2 commenti:

  1. Sono d'accordo che le lettere rappresentano "un'altra versione" dei diari; sono invece perplesso circa il fatto che ne costituiscano "la metà oscura e vitale". Non è il contrario? nelle lettere appare il Cheever sincero nella sua auto-ironia, nella leggerezza con cui fa intravvedere al corrispondente i propri drammi; nei diari, che - effettivamente - sono anche un esercizio continuo di scrittura, mi pare più spietato con se stesso e più trasparente.
    A meno che i diari, in fondo, abbiano avuto sin dall'inizio un destinatario ben presente alla mente dello scrittore, il proprio primogenito. E al proprio figlio si vorrebbe trasmettere la giusta impressione di sé.
    Grazie, Giuliano

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  2. Grazie del commento, molto pertinente, e gradito, in cui mi ritrovo: la mia definizione andava proprio in quel senso, e mi rendo conto che può sembrare ambigua, ma con John Cheever la chiarezza rimane un optional, non sempre garantito.

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