La prima impressione, quando Joan
Didion arriva a Miami, è che
“un’entropia tropicale sembrava prevalere, facendo scivolare in malora i grandi
progetti anche quando venivano portati a termine”. L’atmosfera è tale che la
città le appare come “una specie di sogno a occhi aperti in cui tutto è
possibile” e dentro questa indefinita cornice rientrano Cuba, il Nicaragua, il
Salvador, l’estensione delle frontiere e degli interessi americani e, come una
logica conseguenza nel rapporto tra causa ed effetto, “l’esilio come una forma
di immigrazione”. Dalla presidenza di Kennedy agli anni di Reagan, Joan Didion
ha un modo speciale di accostarsi alla cronaca storica, alla critica politica,
alla costruzione di un saggio, usando la scrittura come un veicolo, come uno
strumento per orientarsi negli oscuri labirinti di Miami e per far emergere e rendere trasparenti “frammenti
di narrativa sommersa”. Attraverso questo lavorio Joan Didion cerca di
comprendere e tradurre Miami dal
punto di vista linguistico, filtrando con la consueta e minuziosa scrupolosità
come la realtà influisce sul linguaggio, e viceversa. Non è soltanto la
commistione tra spagnolo, inglese e altri idiomi o le culture che
rappresentano. Sono anche i vocabolari della politica e della CIA, che
costruiscono quella che Joan Didion definisce una “una lingua interamente basata
sul principio di negabilità, e come tali potrebbero aver avuto un significato
diverso (o anche nessun significato) nella Miami del 1963, dove qualsiasi
parola poteva significare tutto e il contrario di tutto”. Vent’anni dopo, con
le amministrazioni Reagan, l’informazione viene trasformata in “una forma di
arte popolare” e Miami si trova
al centro di un ciclone che cambierà tutto in modo radicale e per sempre.
Dall’osservatorio privilegiato di Miami, dove niente è “completamente immobile,
o del tutto solido” Joan Didion percepisce subito l’entità della metamorfosi
indotta dalla comunicazione pubblica di Reagan e dalle sue proiezioni perché
“prima di tutto queste storie non erano mai casuali, ma sistematiche, e
venivano usate in maniera assolutamente non casuale. Avevano sempre un unico
obbiettivo, e il linguaggio in cui venivano raccontate non era quello della
politica, ma quello della pubblicità e della forza vendite”. Il fenomeno, come
si sa, non riguarderà soltanto Miami o gli interessi americani nei Caraibi e,
come precisa Joan Didion, non si trattava soltanto di “volgarità verbale”, a
cui lei oppone una raffinata e completa ricostruzione. Dentro quelle parole, e
poi soprattutto quelle immagini che a Miami affiorano in superficie chiare, semplici ed efficaci
più che nel resto dell’America, diventa evidente che “le rivoluzioni e le
controrivoluzioni sono incastonate nella sfera del privato e l’apparato di
sicurezza dello stato esiste solo per essere arruolato da uno dei soggetti
privati che guidano l’azione”. L’immagine esotica rimane sullo sfondo: con Miami, anno di grazia 1987, Joan Didion percepiva il
futuro, così come è oggi.
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