Un bel po’ di scrittori più che
rispettabili (Bret Easton Ellis, Richard Ford, Julian Barnes, James Lasdun,
John Banville, John Irving) si sono prodigati con generosità per presentare Tutto
quel che è la vita. Un entusiasmo
legittimo, perché dietro ogni narratore c’è sempre un grande lettore, che trova
una prima risposta di James Salter che dice: “C’è un momento nella vita in cui
ti rendi conto che tutto è sogno, e che soltanto le cose preservate dalla
scrittura hanno qualche possibilità di essere reali”. Fantastico, perfetto:
solo che Tutto quel che è la vita
sembra fatto apposta per smentire quell’epigrafe. Si sviluppa in modo diafano,
ordinato, fin troppo: risponde alle regole e agli standard in modo meccanico e
non ha molto da offrire se non l’evoluzione dei passaggi esistenziali del
protagonista, Philip Bowman. Sullo sfondo, in lontananza e sfocata, l’idea
sembra attingere alla calma (tutt’altro che piatta) di Stoner. La differenza è che le trame della vita, così come
quelle dei romanzi, dipendono in gran parte da chi le traccia ed è fin troppo
evidente che James Salter non è John Williams. Anche se è ambientato nella
seconda metà del ventesimo secolo, Tutto quel che è la vita sembra frutto di una visione ottocentesca (e non è un
complimento): l’inquadratura è sempre la stessa, di solito in interni, nelle
camere, nei soggiorni, nelle sale da pranzo e nei corridoi frequentati dalla
borghesia americana. Le descrizioni sono ovvie e se in generale la scrittura è
solida e coerente, solo a tratti si sente la la personalità dello stile,
qualche frammento di racconto, una scheggia di frase, che di solito è
farraginoso e distaccato. Eppure Philip Bowman, il protagonista di Tutto
quel che è la vita, è un editor, ma si ha
l’impressione che un editor, anche un paio, è ciò che è mancato a questo
romanzo. Bowman incontra soltanto donne bellissime e disponibili, subito, a
finire a letto con lui (prima a letto e poi a pranzo e/o a cena) e le sue
prestazioni sono sempre eccezionali da un rapporto all’altro, tutti che si risolvono
in modo piuttosto banale (salvo quello con Christine, dove Bowman consuma una
fredda vendetta erotica). Tutto quel che è la vita sembra compilato con un menù precotto: un tot di
sesso, un tot di personaggi femminili, un tot di autoreferenza dell’editoria
con un contorno di note false, di cliché, di banalità e di parole superflue.
Più di tutto è sempre piatto, monocorde, senza un filo di emozione. “Era come
un sogno, provare a immaginare tutto, finestre e piani interi che non si
spegnevano mai, il mondo al quale desideravi appartenere”: proprio così, e il
problema è che non succede nulla e nella scena in cui succede qualcosa, su un
treno muoiono una madre e sua figlia, James Salter lascia galleggiare persino
una svista da primo giorno di corso di scrittura creativa: “Intorno all’una del
mattino, per causa sconosciuta, in fondo alla carrozza scoppiò un incendio,
provocato da un corto circuito, e il corridoio si riempì di fumo”. Errore
relativo, dettaglio rivelatore.
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