Le Chiacchiere di bottega di Philip Roth con i suoi illustri colleghi e
colleghe (Bernard Malamud, Isaac Bashevis Singer, Edna O’Brien, Primo Levi,
Milan Kundera, Ivan Klíma, Mary McCarthy, Aharon Appelfeld, Saul Bellow) hanno
una natura camaleontica e si mimetizzano in forme diverse in funzione della
natura dell’incontro e dei legami che lo generano. Può essere un semplice
scambio epistolare, come la corrispondenza con Mary McCarthy, dove i voli
pindarici dei due scrittori si attorcigliano intorno ai dettagli della
circoncisione, in una discussione esclusiva e un po’ cerebrale. Il più delle
volte le Chiacchiere di bottega
nascono da un’idea di intervista che di volta in volta assume profili unici e
particolari. L’incontro con Primo Levi, nei meandri di una fabbrica torinese,
si evolve in un colloquio analitico. Philip Roth, non c’è nemmeno bisogno di
dirlo, è un interlocutore puntuale, scrupoloso e meticoloso, tanto è vero che a
precisa domanda, Primo Levi introduce la sua risposta così: “Più che una domanda,
è una diagnosi”. Altrove il confronto è più immediato e spontaneo: negli
incontri con Ivan Klíma (“A volte dubito che sia ragionevole rimanere in questa
miseria per il resto della nostra vita”) e Milan Kundera (“Un romanzo non
afferma niente; un romanzo cerca e pone delle domande”) emergono affinità e
divergenze e anche una sottile differenza dovuta alle opposte condizioni in cui
gli scrittori si sono trovati a proporre e difendere il proprio lavoro. Dalla
clandestinità all’esilio, Milan Kundera dice: “Io invento storie, le metto a
confronto l’una con l’altra e in questo modo pongo delle domande. La stupidità
della gente deriva dall’avere una risposta per tutto. La saggezza del romanzo
deriva dall’avere una domanda per tutto”. Dall’altra parte Philip Roth sembra
rispondergli con una reazione istintiva: “Credo però che anche in una cultura
come la mia, in cui nulla viene censurato ma dove i mass media ci inondano di
vacue falsificazioni delle questioni umane, la letteratura sia un salvagente,
anche se la società non sembra rendersene molto conto”. Con l’ombra incombente
di Kafka, il più citato e un punto di riferimento per tutti, le Chiacchiere
di bottega si sviluppano nell’intenso
ritratto di Bernard Malamud, nella conversazione di New York con Isaac Bashevis
Singer a proposito di Bruno Schulz, nel confronto con Edna O’Brien e con Aharon
Appelfeld che ha il pregio di sintetizzare un valore comune a tutti, Philip
Roth compreso: “Descrivere le cose come sono accadute significa rendersi
schiavi della memoria, che nel processo creativo è solo un elemento di
secondaria importanza. Per me creare significa ordinare, scegliere e smistare
le parole, e trovare il ritmo adatto all’opera”. Le uniche eccezioni sono il
ritratto di Guston, pittore che dedicò alcune tavole a Il seno di Philip Roth e
la parte conclusiva delle Chiacchiere di bottega
dedicata a Saul Bellow che, più di una rilettura, sembra essere un
omaggio, quasi un inchino all’uscita di scena di un grande maestro.
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