martedì 5 ottobre 2010

Lisa Crystal Carver

Sebbene il vero ordine nella vita di Lisa Crystal Carver sia stato il caos, nel raccontarlo è abbastanza schematica da intravedere, dietro il florilegio di una scrittura sghemba e sprezzante, una chiara sequenza. Quasi uno schema, per quanto sembri impossibile. Eppure, i passi sono presto decisi. Prima di tutto archiviare la (vecchia) famiglia: “La cosa che lo rende più orgoglioso, dice mio mio padre, è che non mi ha mai picchiato, anche se spesso ne avrebbe avuto voglia. Tanta. E ne avrebbe ancora, mi informa. Mi predice che per me sarà facile non picchiare i miei figli; sarà una cosa naturale. Merito suo: ha interrotto un’usanza familiare che andava avanti da almeno un secolo”. Varcata la soglia della disperazione altrui c’è la musica, l’arte, la scrittura, la vita sulla strada, anche se è tutto a un passo dalla tenebre: “Usciamo con gentaglia strana e spaventosa, che un po’ speriamo e un po’ temiamo si occupi di fare il lavoro sporco al posto nostro. Ma siamo così abituati a vivere dentro un sogno che perfino il lavoro sporco sembra un sogno. Non possiamo uscirne. Non possiamo svegliarci”. Lisa Crystal Carver ispirata in tutto e per tutto dal nocciolo dello spirito “punk”, sprizza idee a ogni secondo e l’arte diventa il modo per interpretare la vita, anche perché “la realtà è fatta per nove decimi di intuizione”. L’elemento della provocazione è certo determinante: c’è ossessione, c’è l’attrazione verso le morbosità, l’eccentrico, le devastazioni. Il suo è uno sguardo senza filtro, un diario scheggiato, un taccuino di appunti che diventa libro. Non avendo avuto niente dalla vita, Lisa si prende tutto senza distinguere l’arte dalla spazzatura, riesce ad avere un figlio (Wolf, il nome dovrebbe bastare) e poi subito un aborto, vive con amanti assurdi e viaggia in tour ancora più folli. La scrittura è grezza, immediata, smodata: è un do it yourself continuo, un taglia e cuci che sarebbe piaciuto a Burroughs perché prima di tutto è uno strumento, il suo salvagente, un appiglio a cui Lisa si aggrappa nella sua disperata ambizione di comunicare con il mondo intero. Sembra Patti Smith adeguata ai tempi: più acida, più dura, più spietata. Persino con se stessa, ed è la sincerità negli atti finali a rendere credibile il suo rutilante incendere. La sequenza, anche in questo senso, è micidiale. Una prima distinzione, molto utile, racconta il senso della vita “underground” meglio di tanti studi sociologici e antropologici. In quattro righe quattro: “Non è che possiamo tutti essere produttivi, o che dovremmo esserlo. Il modo in cui gli antisociali, gli esseri rivoltanti o inetti o psicotici, guardano alle cose dovrebbe essere produttivo di per sé”. La seconda ammissione vale un Grammy per l’innocenza: “Non avevamo particolari capacità. Ci spingevamo oltre ciò che sapevamo fare e ciò che eravamo. Abbiamo fallito”. Come nel punk bastavano tre accordi per fare una canzone e formare i Clash, la terza e conclusiva nota da cercare frugando nel torbido delle pagine di Lisa Crystal Carver è rivelatoria nella sua disarmante chiarezza: “E’ dura farsi da parte, uscire da quei girotondi, solo perché ormai è giunta l’ora, perché è il turno di qualcun altro, e perché un piccolo essere umano ha bisogno di noi. E’ dura accorgersi che l’unica cosa che possiamo sperare di conservare è la dignità; e questa, paragonata al fulgore rigoglioso e lacerante che avevamo un tempo, è qualcosa di abbastanza sbiadito”. Tutto, e troppo presto, però qualcosa resta.

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