mercoledì 23 luglio 2025

Nicholas Rombes

Fedele al titolo e rispecchiando la forma delle canzoni e in fondo l’essenza dei Ramones queste cento pagine riescono nell’impresa di raccontarli con la stessa immediatezza. Forse non c’è modo migliore: il loro è un immaginario compresso in ritmo e velocità, con componenti stilistiche ridotte al midollo, nessuna concessione fuori dai propri limiti e una concentrazione univoca e feroce. Concentrandosi in particolare sull’epocale album d’esordio e con il felice (e ormai raro) dono della sintesi, Nicholas Rombes trova il modo di coniugare tutti gli elementi distintivi della storia dei Ramones partendo da un’attitudine singolare e in gran parte ancora incompresa. La descrizione iniziale è esplicita e diretta: “Erano forse il più puro e il più geniale dei gruppi punk spersonalizzati: si presentavano con una divisa immutabile, condividevano lo stesso cognome, e facevano musica che riarticolava più e più volte una sola idea”. Subito dopo, la sua analisi aiuta a collocarli con un grado di precisione che merita tutta l’attenzione possibile: “In America c’è forte scetticismo e diffidenza nei confronti di qualsiasi forma artistica e culturale che non si evolve, che non cresce. Non esiste critica più grave dell’accusa di ripetere se stessi. Eppure lo scopo del punk era proprio la ripetizione: la sua arte stava nel rifiuto dell’elaborazione. E questo non è mai così evidente quanto nel primo album dei Ramones, la cui simmetria tremenda e inflessibile annunciava l’arrivo di un suono talmente puro da non avere bisogno di cambiamento”. Per quanto superficiale, ristretta e monocorde, almeno in apparenza, l’espressione dei Ramones condensa un mucchio di sollecitazioni, prima tra tutte, per quanto a livello subliminale, la dottrina usa e getta di Andy Warhol e, per naturale estensione, di un’intera città. Lo notava soprattutto Dick Hebdige: “I gruppi punk di New York avevano assemblato un’estetica consapevolmente profana ed estrema a partire da una varietà di fonti artistiche affermate (dall’avanguardia letteraria al cinema underground)”. Da quella posizione privilegiata, Nicholas Rombes concentra sui Ramones una rivisitazione del significato primo e ultimo del punk che “ha reso famoso il gesto di mettere mano a una chitarra o a una penna per affrontare la cultura, non per distruggerla, ma per trasformarla” e, accelerando senza timori reverenziali, “aveva riportato nel sistema una sensazione di divertimento e pericolo”, e questo è tutto. Sì, una soluzione pronta, da consumare subito, senza controindicazioni, compreso il suo destino effimero perché, come scrive Nicholas Rombes, “in realtà, il punk funzionava meglio quando era qualcosa di sfuggente, intravisto con la coda dell’occhio. Era destinato al fallimento, e qui stava la sua bellezza. Non poteva durare”. Se è vero da un punto di vista estetico, bisogna aggiungere che la scintilla dei Ramones e del punk viene però inserita in una prospettiva più ampia, sia in direzione del futuro, sia andando a ritroso nel tempo visto che, secondo Rombes, “la filosofia del fai-da-te fa parte della tradizione americana, dall’epoca della Guerra d’Indipendenza all’appello alla fiducia in se stessi di Ralph Waldo Emerson”. E comunque i Ramones (indispensabili oggi più che mai) non hanno fatto tutto da soli e Nicholas Rombes ricorda nella giusta misura il ruolo di cronisti musicali che per un brevissimo momento parvero coltivare ambizioni linguistiche e letterarie un po’ più elevate rispetto alle paludi dell’underground. Uno di loro, Danny Fields, un testimone sul campo molto affidabile, scrisse: “Le canzoni erano brevi. Si capiva nel giro di cinque secondi che cosa stava succedendo. Non c’era bisogno di analizzare e/o stabilire cosa si vedeva o si sentiva. Era tutto lì”. Breve, intenso ed efficace, proprio come i Ramones.

martedì 22 luglio 2025

Daniel Mark Epstein

Un po’ di tempo fa Dylan ha detto: “Se una canzone ti commuove, questo è tutto ciò che è importante. Non devo sapere cosa significa una canzone. Ho scritto di tutto nelle mie canzoni. E non ho intenzione di preoccuparmi di cosa significhi”. La presa di posizione è più che legittima, così come vale comunque la pena dare una sbirciatina dietro l’angolo e provare a cogliere gli intensi riflessi di quello che Daniel Mark Epstein definisce in modo appropriato “un poeta e una sorta di profeta, uno del quale potevi essere sicuro che esprimesse sinceramente le proprie percezioni. Vedeva in profondità nella storia e nel cuore umano. Il poeta era un’affidabile entità morale, incorruttibile in questo senso”. Per provare a raccontare una volta di più la figura di Dylan, con partecipazione ma senza ossequi di sorta,  Daniel Mark Epstein opta per una biografia non convenzionale (che, tra l’altro, non procede in senso cronologico) e alterna ricordi e sensazioni individuali a cronache e letture storiche collettive e diffuse. Messa da parte l’urgenza nozionistica o rivalutata da altri autori (Shelton, Scaduto, Sounes) con uno spirito più libero e informale, la “ballata” di Bob Dylan trova un andamento caratteristico con ampie sequenze dedicate all’analisi delle canzoni (tra cui vengono messe in risalto Tangled Up in Blue, Jokerman, Mississippi), alla realizzazione degli album (con un notevole spazio dedicato, per esempio, a Time Out of Mind e a Love and Theft), ai rapporti e al ruolo dei musicisti coinvolti e ai lati esistenziali e caratteriali, compresi quelli più sgraditi e oscuri. Un certo grado di disordine è da mettere in conto perché Daniel Mark Epstein, pur riportando con accuratezza fatti & storie, ritorna comunque a concentrarsi sulle origini e sul destino delle canzoni. Questo è propiziato dalla vocazione di Dylan che, fin dalla sua apparizione nelle strade di New York “chiedeva insistentemente, otteneva in prestito, o rubava registrazioni, memorizzando canzoni. Creò nella sua testa una collezione più fantastica di qualsiasi altra esistente su un acetato o vinile perché le canzoni erano tutte vive e collegate tra di loro, immediatamente disponibili per intero o in frammenti, trasformandosi, dividendosi e combinandosi incessantemente nell’immaginazione del poeta”. Mentre sfilano in ordine sparso Pete Seeger, Phil Ochs, Joan Baez e la Band, Allen Ginsberg o i Grateful Dead, attraversando stati d’animo e umori a volte difficili, spesso incomprensibili, Dylan pare estraneo, se non proprio alieno alle faccende terrestri e il motivo lo spiega con un interessante paradosso: “Se uno scrittore ha qualcosa da dire deve dirlo a tutti i costi. Il mondo è reale. La fantasia è diventata il mondo reale, che ce ne rendiamo conto o no”. Suo coetaneo (o quasi), Daniel Mark Epstein pare assecondarlo, mantenendosi in bilico, tra una visione intima ed emotiva, comprensiva di un concerto del Never Ending Tour visto in compagnia del figlio, la descrizione dei complessi meccanismi che regolano la vita in una rock’n’roll, con l’ampio e meritatissimo spazio dedicato al batterista David Kemper e al chitarrista Larry Campbell e la necessità di tornare a ribadire che “il linguaggio della canzone è una forza di cui tenere conto”. Le divagazioni, frequenti e ricche di suggestioni, sono parte integrante di una prospettiva anomala e aggiornabile, che segue un itinerario tutto suo, senza la volontà di esaurire a tutti i costi ogni singolo aspetto personale e artistico (che resta un’impresa improbabile) e di ritornare spesso e volentieri all’origine perché come dice Jim Dickinson: “Sono convinto che per lui le canzoni siano tutto”. Deve essere proprio così, e nel nome di Woody Guthrie, Hank Williams, Johnny Cash ed Elvis, la “ballata” di Bob Dylan resta anche qui la più luminosa.

lunedì 14 luglio 2025

Oakley Hall

Warlock è una città di frontiera dove il mantenimento dell’ordine è una scommessa continua, se non proprio un azzardo. In “un paese in cui bastano venti dollari per diventare leggenda comprando una pistola in un’armeria qualsiasi” per l’amministrazione della giustizia e la difficile corrispondenza rispetto alle norme e alla rettitudine non erano sufficienti gli sceriffi, locali ed eletti. Il governo americano inviava i marshal, agenti federali con un ampio mandato, così come lo esprime Clay Blaisedell, protagonista del corposo romanzo di Oakley Hall. Ricopre il suo ruolo con sicurezza, è un tiratore efficace (fin troppo), una dote non relativa laggiù dove la vita quotidiana si svolge nelle strade e le regole sono dettate dalle Colt. Le sue sono intarsiate d’oro e rispecchiano il concetto essenziale che “se in un posto c’è un solo uomo a rappresentare la legge, quell’uomo va rispettato altrimenti non esiste più legge”. Il suo servizio è sottoposto al giudizio e al controllo di un comitato civico, di conseguenza “in città infuriano le discussioni, si fanno ipotesi, si respira un senso di atterrita attesa, anche se sono in molti a bramare una resa la cui forma ideale può essere soltanto quella di un duello in strada”. Il marshal è al centro di tutte le tensioni e di scontri ce ne saranno parecchi perché “Warlock era un ribollire di congetture” e si susseguono assalti alle diligenze e raggruppamenti di posse, giudici ubriachi e polvere nell’aria, folle inferocite e risse nei saloon finché il clima diventa irrespirabile perché “non c’è stata nessuna catarsi, c’è stato soltanto disgusto e, d’un tratto, la paura di ognuno di guardare in faccia la persona che aveva accanto”. La posizione di Warlock è fragile: è uno dei vertici di un triangolo che comprende il tribunale della contea di Bright’s City da cui dipende (compresa la guarnigione dell’esercito al comando del generale Peach) e  San Pablo, che è la residenza di una congrega di fuorilegge. Le distanze non mitigano neanche un po’ le molteplici ragioni di conflitto e quando i minatori scioperano per le sacrosanti rivendicazioni salariali e per migliorare le condizioni di lavoro, i proprietari prima si rivolgono a un manipolo di furfanti e, infine, alla cavalleria. Warlock si ribella con generosità, con un contributo particolarmente coraggioso delle donne, ma l’intervento dell’esercito, come è successo spesso e volentieri nella storia americana, pone fine alle intemperanze e, per estensione, all’incarico di Clay Blaisedell. Il suo commiato resta un monito lapidario: “Un uomo deve essere fiero, ma deve avere una ragione per esserlo” e, come diretta e insindacabile conseguenza, il suo valore “consiste anche nel capire quando è il momento di levare le tende”. A Warlock le parole hanno un peso specifico e Oakley Hall, sapendo benissimo che “l’uomo è un animale che si distingue dalle altre bestie proprio per la sua capacità di creare cose che non esistono”, lascia che ognuno si esprima a modo suo. Con somma precisione, e nella sua nebbia alcolica il giudice sentenzia: “Un uomo risponde di quel che è”. La facoltà di esprimersi è concessa persino ad Abe McQuown, il capostipite dei banditi, che dice: “Credevo che prima o poi dovessimo accettare che le cose cambiano, ma ho capito che nulla è cambiato. È sempre lo stesso, cane mangia cane e non c’è giustizia se non quella che ti fai da te”. Oakley Hall inserisce anche un punto di vista alternativo, attraverso l’epistolario di Henry Holmes Goodpasture, che è lucido nel decifrare le turbolenze di Warlock: “Devo ovviamente accettare il fatto che l’opinione pubblica non è così unanime come mi piacerebbe credere. Ci sono delle controversie, ma come troppo spesso capita, siamo più inclini a concentrarci sugli uomini in quanto simboli che non sulle controversie in sé”. E per il vicesceriffo Gannon è tutto molto semplice: “Ci sono un momento e un luogo in cui bisogna andare in scena, solo questo”. Come se stesse dirigendo il grande coro di una tragedia, Oakley Hall trasforma ogni luogo comune del West in un’imponente e accurata realtà linguistica, ricordandoci che “in tutta Warlock era la stessa storia, la gente non faceva che parlare, cambiando versione, aggiustando le cose o alternandola a seconda delle convenienze o, meglio ancora, trasformandole in qualcosa da poter accettare, con rabbia o sconcerto o tristezza”. Insuperabile, come una scala reale al tavolo del poker.

giovedì 10 luglio 2025

Diane di Prima

Il linguaggio è crudo, spontaneo, molto diretto: Diane di Prima celebra le manifestazioni erotiche con tutto il parossismo possibile, eguagliando nelle esperienze sul campo Opus Pistorum di Henry Miller, però va detto che le umidicce descrizioni anatomiche e le geometrie degli amplessi sono le parti che nelle Memorie di una beatnik scorrono via senza colpo ferire. Il sesso in tutte le sue declinazioni appare come un’instabile forma di comunicazione, soggetta a sbalzi d’umore e variazioni sul tema del tutto casuali: Diane di Prima elenca posizioni e performance senza alcun pudore e, sì, all’epoca erano scandalose, ma di tempo ne è passato un bel po’ e nelle Memorie di una beatnik è molto più interessante scoprire le radici della vita bohémienne, il paesaggio urbano del Lower East Side, le ambizioni e la fame di giovani anime ribelli, gli affitti da pagare, i miseri pasti, la sopravvivenza nel clima gelido di New York. Soprattutto la scelta della marginalità, di non assecondare regole precostituite e inamovibili, in favore di velleità artistiche, ancora molto nebulose. Le origini spontanee, la povertà e la promiscuità e la scintilla della scrittura inserita in un contesto di appetiti feroci, e non soltanto di cibo, ma anche di indipendenza e libertà, soprattutto quest’ultima, vanno cercate in una condizione estrema e spesso miserevole, compresa la digressione della vita in campagna, che Diane di Prima condivide con tre uomini. Ritornata nella metropoli, nega ogni legame con la generazione precedente, che “era basato su bugie e sotterfugi”, e poi lei e gli amici che vanno e vengono sono alieni e refrattari alla frenesia di New York si convincono che devono salvaguardare a tutti i costi la loro “integrità (ci volle un sacco di tempo e di energia per definire il concetto di svendersi) e di mantenerci cool”. Con il risultato di vivere un isolamento “totale e impenetrabile” ed è quasi commovente la scoperta dell’esistenza di altri come loro. L’incontro con Allen Ginsberg propiziato dall’apparizione di Urlo è rocambolesco, e si trasforma nell’ennesima prestazione di amore libero & comunitario. Ricorda Diane di Prima: “Sapevo che questo Allen Ginsberg, chiunque fosse, aveva spianato la strada a tutti noi, a tutte quelle poche centinaia di persone che eravamo, semplicemente facendo pubblicare il suo libro. Non avevo ancora idea di cosa significasse, né di quanto ci avrebbe portato lontano”. La sua apparizione è una svolta epocale perché “se c’era un Allen, ne conseguiva che ce ne dovevano essere altri, altre persone, oltre ai miei pochi amici, che scrivevano quello che dicevano e quello che sentivano dire, e che vivevano, anche se in modo oscuro e con vergogna, quello che sapevano, nascosti qui e là come noi; e ora, improvvisamente, queste persone stavano per parlare a voce alta”. La gioia dell’incontro è limitata, l’atmosfera è quella di una vigilia di terrore: “Aspettando con una lievissima amarezza che tutto finisse, che l’era dell’uomo giungesse alla sua conclusione in una vampata radioattiva, adesso si sarebbero fatti avanti e avrebbero detto la loro. Non li avrebbero uditi in molti, ma loro finalmente si sarebbero uditi a vicenda”. A modo tutto suo, Memorie di una beatnik è ancora oggi una testimonianza vivida e validissima dell’emersione della Beat Generation celebrata con un’orgia, a cui Diane di Prima si dedica con un partner d’eccezione, ovvero Jack Kerouac. Non manca nessun dettaglio, ma sono soltanto momenti impalpabili e la postfazione del 1987, molti anni dopo, fa un po’ la cernita tra quello che era reale e ciò che è diventato leggenda. Sono ricordi che si trasformano e si plasmano perché “le persone recitavano se stesse”, poi Diane di Prima si trasferisce in California, con un figlio e l’FBI alla porta, i tempi stavano cambiando e di sicuro non in meglio, sia dal punto di vista personale, sia da quello collettivo, e si ritrova “a scrivere per pagare l’affitto e le vettovaglie”. Memorie di una beatnik nasce così e Diane di Prima racconta: “Mentre scrivevo, ascoltavo e riascoltavo Bird, o Clifford Brown, o Walking di Miles, e mi tuffavo in ricordi minuscoli e perfetti di stanze, e di scene, e di persone dimenticate da lungo tempo; e questo naturalmente è uno dei piaceri di chi scrive prosa, un piacere che stavo gustando per la prima volta”, e, in risposta alle insistente richieste di Maurice Girodias, editore scaltro e visionario, “inventavo strane angolazioni di corpi, o curiosi accostamenti di esseri umani, e ce li ficcavo dentro”, e, in fondo, il doppio senso pare molto più che naturale.

mercoledì 2 luglio 2025

Lou Reed

Tra i ricordi collezionati per Il mio Tai Chi, spicca quello di Fernando Saunders, bassista che cominciava la collaborazione di Lou Reed nell’autunno 1981 con la registrazione di The Blue Mask: “Penso che quando l’ho conosciuto, Lou avesse dei demoni, c’entrava l’alcol e roba del genere. Ha smesso di bere proprio quando l’ho conosciuto. Proprio poco prima che ci incontrassimo. Mi parlò di tutta la faccenda. Sai, Lou faceva sempre battute, anche sulle cose peggiori. Quando ci siamo conosciuti, parlava spesso con me della vita. Immagino che avesse bisogno di confidare queste cose a qualcuno”. È il momento in cui tutte le maschere sono cadute. L’inversione di marcia è radicale, almeno quanto gli oltraggi che l’hanno preceduta. La questione è semplice, secondo Lou Reed: “Sono molto hardcore. Seguo la palla che rimbalza ovunque vada, e non mi interessa”. In quel momento si trattava di scegliere la sopravvivenza e le arti marziali hanno rappresentato l’occasione per superare gli anni pericolosamente vissuti “sull’altro lato”. Lou Reed: “Alcuni dei miei interessi sono piuttosto scellerati. Avevo in mente cosa volevo, ma non sapevo bene come ottenerlo. Conoscevo tutte le cose che non bisognerebbe fare, ma non quelle che si dovrebbero fare”. Il nuovo corso comprende l’appiglio al Tai Chi come espressione di una disciplina indispensabile a contenere i danni ed è allora che diventa uno strumento di ricerca, un modo per ritrovare un centro permanente di sobrietà e stabilità, un’ossessione senza controindicazioni. New York, sullo sfondo. Dal tetto della casa di Lou Reed si vede l’Hudson. Lui pratica tutti i giorni e l’assiduità della preparazione è segno di una decisione e una fede rinnovate. Il suo approccio è unilaterale e non nasconde l’idea di ristabilire una connessione con il fisico segnato dagli abusi e dalle dipendenze. Non è facile perché, proprio come dice Lou Reed: “Siamo un corpo, un grande tendine. Dobbiamo essere pacificatori di noi stessi”. L’esercizio continuo del Tai Chi si fa rassicurante, e si trasforma in una fonte di rinnovata energia. Lou Reed, prima di tutto, ci crede ed è il suo afflato che trascina tutta una comunità di praticanti come lui. È entusiasta al punto di portarsi il maestro in tour e sul palco come se fosse la cosa più naturale al mondo. Si capisce che il Tai-Chi è una zona franca, dove non intervengono le logiche distorte dell’industria discografica e dello show business e si rivela un’occasione di incontro, di confronto, e di amicizia. “L’arte dell’allineamento” occupa una posizione centrale nella vita quotidiana di Lou Reed e la sua dedizione per il Tai Chi diventa lo spunto per conoscerlo nell’intimità, nei suoi desideri e negli ultimi, strazianti momenti, attraverso i punti di vista diversi di insegnanti, medici, colleghi, complici. Il coro delle testimonianze è ricco e assortito e i testimoni raccolti da Laurie Anderson sono tanti tra cui Iggy Pop, Jonathan Richman, Wim Wenders, i produttori Bob Ezrin e Tony Visconti che sintetizza l’arte dei Tai Chi con “spingere la testa verso il cielo e tenere i piedi saldamente per terra”. È un profilo “obliquo” di Lou Reed, molto acuto: le voci compongono un ritratto con molte sfumature differenti che, se sommate, offrono un quadro realistico degli ultimi anni di Lou Reed, così come lo racconta Anne Waldman in un denso ed elegiaco ritratto: “Lou era un artista straordinario: bello, inebriante, imprevedibile. Aveva una voce originale e un suono distintivo, e sexy. E possedeva molteplici personalità, cambiava costumi e volti e stati d’animo diversi. Lui è l’imbroglione non binario. Gli album sono mondi completi e opere in sé e per sé. Storie, poemi epici”. Se il Tai Chi è una costante, Lou Reed è visto in modo tridimensionale, anche se gli angoli più scomodi, difficili da negare, sono smussati. Associare l’autore di Heroin al Tai Chi è qualcosa in più che contraddittorio, però è anche l’evidenza che il cambiamento ha una sua forza specifica e che la trasformazione è vitale come sostiene Hal Willner: “Lou era un artista in continua transizione, non si fermava mai, era sempre alla ricerca di ciò che veniva dopo”. Lou Reed l’ha reso possibile con la stessa convinzione dedicata al Tai Chi: “Costruisci, costruisci, costruisci. Ecco come”. Inarrivabile.