martedì 1 marzo 2022

Josh Ritter

Sia nella realtà che nell’immaginario trasposto da Hollywood e in ogni altra sua rappresentazione, il West è una meta e un destino “per il richiamo dell’avventura, per far fortuna, per la promessa della libertà”, come scrive Josh Ritter, già eccellente songwriter (e consigliamo senza esitazioni i suoi album, buoni ultimi So Runs The World Away e Fever Breaks) e, da qualche anno, anche sorprendente narratore. Tutta l’epopea del West, dove la legge non arriva e, come si sa, ci sono altri modi per regolare i conti, ha un ruolo insindacabile in Una grande, gloriosa sfortuna. Agli albori del ventesimo secolo, il legname è ancora una materia prima ricercata e preziosa ed è all’origine del miraggio di gloria e guadagni, assicurati dallo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali e del lavoro degli immigrati russi, italiani, finlandesi. Per loro non esiste ancora l’America, e il piccolo Weldon Applegate assiste alla spedizione verso il Territorio Perduto, un impervio angolo di foresta da disboscare, organizzata da padre, Tom. È quando glielo riportano in una bara di legno, e siamo solo all’inizio di Una grande, gloriosa sfortuna, che nasce lo scontro con Linden Laughlin, un personaggio particolarmente odioso, un vero bad boy. Si muove con accurata lentezza, sogghigna perché “i mostri peggiori fanno le cose con calma” e pare avere doti sovrannaturali. È l’antagonista del giovane Weldon Applegate, che vorrebbe far valere i suoi diritti sul Territorio Perduto e, per estensione, vendicare la morte del padre. Per i taglialegna, Weldon Applegate è solo un “cucciolo”, e deve stare alla larga dal Territorio Perduto, dato che “i bambini non portano fortuna nei boschi”. Dalla sua parte ha soltanto la Strega e i western (muti) con Bud Maynard e poco altro perché Cordelia, Idaho, non è propriamente nemmeno una small town, è un agglomerato di case, con un saloon dove il pianista, Billy Lowground, suona la stessa canzone per giorni interi: Some Somewhere, e il titolo dovrebbe già dire abbastanza. Scorre un fiume sotterraneo di alcol, e con il proibizionismo, Cordy si popola soprattutto di fantasmi (“Se n’erano andati tutti. Come se fossero stati rapiti in cielo lasciandomi solo in mezzo alla strada deserta, fiancheggiata da edifici scheletrici e falciata da un vento di morte, circondato dalle ossa di taglialegna scomparsi da tempo e vissuti e morti sotto i rami immensi di un’antica magia profumata che stava svanendo”), ma non si può dire molto di più. Una grande, gloriosa sfortuna si snoda come un’intensa e turbolenta ballata dell’Anthology of American Folk Music piena di mistero, ironia, magia, amore, omicidi, leggende, ed è persino blasfema (come è giusto che sia) in certi passaggi, ma c’è qualcosa in più, o meglio, in meno. L’alternarsi delle voci tra il giovane e il vecchio Weldon Applegate si rimbalza in un arco temporale di cent’anni di solitudine, quelli che separano lo scontro per il Territorio Perduto e, all’estremo opposto, la diatriba con il nuovo (vecchio) nemico, Joe Mouffreau. La loro faida, che si specchia con quella di Linden Laughlin, è persino relativa: gli alberi sono stati tagliati tutti e solo gli ecologisti si arrampicano sui tronchi per salvarli, e già questo rende l’idea di come cambia la percezione dell’ambiente e della wilderness nel corso della storia. Qualcuno sopravvive, qualcuno no, e “i ricordi vanno a riempire gli spazi dove manca qualcosa”, e qui a ben guardare in Una grande, gloriosa sfortuna, manca una parte fondamentale, quella dell’età adulta (e, diciamo così, produttiva). Josh Ritter la rimuove, come se fosse una componente troppo ingombrante, come se fosse importante solo ciò che succede fino al termine dell’adolescenza e poi molto, molto più in là, quando rimane solo di bersi una birra in pace. Una visione anomala, da un punto di vista narrativo, ma non del tutto fuori luogo, anzi: è proprio quel vuoto in mezzo che rende Una grande, gloriosa sfortuna un romanzo originale, se non proprio geniale. Mascherandola e nascondendola dentro conflitti di ogni genere e natura, dove il mito americano della frontiera vuol dire trovarsi un nemico a tutti i costi e il West è sinonimo di crepuscolo, Josh Ritter lascia un’intera prateria a disposizione per capire che gli adulti si affannano a rincorrere un mondo di fallimenti e se c’è un Territorio Perduto va cercato proprio lì.

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