La predisposizione per la scrittura era ben nota, a partire dalle memorie autobiografiche raccolte in La mia vita a New Orleans, ma un riepilogo così ampio, dettagliato e curato sotto ogni aspetto spalanca una dimensione inedita per la vocazione di Satchmo spostandola sotto una luce diversa. L’encomiabile lavoro di ricerca, selezione e analisi svolto da Thomas Brothers riesce a mettere ordine senza togliere nulla e permette di avere un quadro complessivo degli sforzi di Louis Armstrong. Dalla corposa antologia emerge, oltre alla meticolosa anatomia linguistica, una storia della vita di Louis Armstrong attraverso la sua voce, però commentata e ordinata in modo da inserirla un contesto preciso e completo. Pur non essendo un letterato, Louis Armstrong sorprende nel sommare un fraseggio gergale con una moltitudine di segni ortografici, non sempre e non del tutto decifrabili, ma che costituiscono una parte essenziale del ritmo scandito dal suo stile. Il linguaggio (e la sua composizione nella pagina scritta) assume forme mutevoli e improvvise: Louis Armstrong è al centro di un mondo fluttuante ed esplosivo dove la vita di strada e quella dei musicisti scorrono in parallelo. Dalle origini, poverissime, con l’intraprendenza che l’ha distinto, si trova a confrontarsi con una moltitudine di idiomi, a partire dal legame con i vicini di casa della comunità ebraica, finché che le variazioni verbali e la musica non cominciano a intersecarsi, ad alternarsi e a sovrapporsi. L’effetto, anche nella cornice di uno studio accademico, quale è Un lampo a due dita, è magmatico. Al di là dell’attitudine a raccontare ogni singolo dettaglio, Louis Armstrong guarda sempre alle cose della vita con una cauta benevolenza, frutto di una saggezza maturata sulla strada, e con un inattaccabile entusiasmo: i rapporti con l’universo femminile, le band, i locali, la vita notturna sono tutte occasioni per maturare quella spicciola filosofia che gli fa risolvere l’antico paradosso dell’uovo e della gallina così: “Meglio un uovo oggi che una gallina domani”, e così sia. Le pagine del diario, le lettere, gli appunti sparsi o gli articoli riportano l’epopea di orchestre e musicisti, da Joe Oliver a Mezz Mezzrow, da Jelly Roll Morton a Buddy Bolden fino a Fletcher Henderson (con Coleman Hawkins tra i sassofoni) e sono lì a ricordare che “in quel periodo, tutti i musicisti erano gente sana e libera, con un sacco di energia per fare quello che volevano”. Comprese le testimonianze dei viaggi e dell’evoluzione dei tempi: da New Orleans (“Allora abbiamo cominciato a entrare nel groove, nel groove di New Orleans. E fu allora che iniziammo a fare dischi tutti i giorni. Fu un’ottima cosa, per noi”) a Chicago (memorabile l’incontro con i gangster, dopo tutto sono gli anni di Al Capone) fino dall’arrivo in Europa, le note di Louis Armstrong raccontano un’altra diaspora afroamericana nonché l’evoluzione dal blues alle sfide al bebop. Una nuova era stava ormai per cominciare e i ricordi prendono il sopravvento con “tutta quella bella musica che usciva dai nostri strumenti, che ti faceva venir voglia solo di ballare e ascoltare, e di sperare che non finisse mai”. Poi, come dice Louis Armstrong, proprio come “la musica che viene dallo strumento di un uomo parla a sufficienza”, così nella scrittura, ha saputo esprimere un senso compiuto, con due dita che pigiavano febbrilmente sulla macchina da scrivere: “Ho avuto una vita meravigliosa, in oltre quarant’anni di musica, ma sento su di me l’oppressione esattamente come ogni altro nero. I miei genitori e la mia famiglia hanno sofferto in tutto quel vecchio Sud... La mia gente... Non vorrebbe altro che essere trattata in modo equo. Ma quando vediamo in televisione o leggiamo sui giornali che una folla ha insultato una ragazzina di colore e le ha sputato addosso... Credo di aver il diritto di arrabbiarmi e di dire qualcosa in merito”. Generoso, caotico, ruspante. Il resto è jazz.
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