Nel raccontare boscaioli, pescatori e contrabbandieri di origini finlandesi lungo il fiume Columbia, a ridosso del confine tra lo stato di Washington e l’Oregon, Karl Marlantes illustra quei conflitti e contraddizioni dell’America che, all’inizio del ventesimo secolo, hanno segnato profondamente l’evoluzione di una nazione, costruita sfruttando le risorse naturali e umane, ma soprattutto lasciando “balenare davanti la possibilità che chiunque possa arricchirsi come Rockfeller. Tutto quello che devi fare è lavorare di più e risparmiare di più. Se non diventi ricco, la colpa è tua”. Un bel miraggio che è determinante nell’arco temporale sotteso da Deep River, dal 1893 al 1932, un periodo di grandi movimenti e altrettante trasformazioni dove Karl Marlantes lascia filtrare che “il falso mito del marxismo non riuscirà a sconfiggere il falso mito dell’America. La profezia di Marx ed Engels che sarebbe stata la prima a partire è sbagliata”. Una sentenza facile a posteriori, si dirà, ma Deep River è un romanzo corale e insieme attento ai destini individuali, nei quali si addentra con cognizione di causa, perché Karl Marlantes sa benissimo che “un conto era la teoria, un conto era la pratica: la voce della mente e il sentimento del cuore”. Succede fin dal prologo, candido e feroce: siamo ancora in Finlandia, l’amata Suomi dominata dalla Russia dello zar, e il personaggio centrale è già Aino “perché lei era sempre fuori a guardare all’interno”, una posizione che si rifletterà un po’ su tutte le (numerose) figure femminili di Deep River. Combattuta tra il richiamo della famiglia e l’urgenza della mobilitazione, sempre in viaggio, spronata da un inequivocabile senso per la giustizia, la tormentata personalità di Aino contiene tutti i contrasti del romanzo. Per lei e per ogni altro, la rivoluzione resta un sogno ed è nella lotta per la sopravvivenza che i personaggi si affidano al sisu, ovvero l’indomito spirito finlandese che ha un’estensione tagliente e pericolosa nel puukko, il coltello tradizionale, protagonista di alcuni dei momenti più ripidi di Deep River. Le mitologie norrene e scandinave o, d’altra parte, persino le risorse sciamaniche di Vasutäti, un’indiana che vive nella foresta, hanno un ruolo basilare in Deep River e nella ricostruzione delle vicende reali che pesano sul destino della famiglia di Aino, i Koski, Karl Marlantes riporta l’attenzione a questioni vitali più specifiche e dirette: il sostentamento, l’istruzione, i matrimoni (combinati e non), i legami, le promesse, le delusioni. Sono pagine davvero intense e trascinanti: ogni vita è incastrata nell’altra, come una saga, ma con un senso specifico nella sua articolazione. Deep River è epico quando racconta la quotidianità delle persone, melodrammatico nel rendere fluidi i movimenti dei personaggi, e lo scorrere delle storie, al punto di giungere alla conclusione che “siamo come ramoscelli strappati dall’albero dell’umanità dalle tempeste d’inverno”. Dentro queste turbolenze, la parola chiave di Deep River è, molto semplicemente, dignità e il dubbio è come raggiungerla, perché la costituzione americana e la dichiarazione d’indipendenza sono fatte di parole e la realtà delle strade tiene insieme l’economia lecita e quella illegale (non poi così distinte, come si vedrà), costi e ricavi, investimenti e fallimenti. Poi se è vero, come è vero, che “le rivoluzioni richiedono dei capi visionari. In America, i capi visionari entrano in affari”, alla fin fine, l’etica assillante del “duro lavoro” e il mito del self-made man non reggono e il mercato sovrano, su tutto, ha bisogno della contrapposizione, dagli attriti con gli altri immigrati (greci, italiani e cinesi in primis) alla violenza per la repressione delle proteste e delle rivendicazioni, fino ad approfittare delle patriottiche circostanze dello sforzo bellico della prima guerra mondiale per ricordare che “gli affari sono affari”. That’s all folks, ma per fortuna, Deep River è la testimonianza concreta e massiccia di qualcuno che ancora parla, in un romanzo maestoso e ricercatissimo, della durezza delle condizioni di lavoro, dei primi movimenti sindacali, delle ambiguità del governo e delle istituzioni federali, dell’illimitata spietatezza delle esigenze del profitto nei confronti dell’ambiente e degli esseri umani. Senza un filo di retorica: Karl Marlantes sa benissimo che “il conflitto fra capitale e lavoro, esposto così elegantemente nelle teorie politiche ed economiche, riguardava sostanzialmente il fatto che la fame durava più a lungo dell’avarizia” che, in fondo, “il futuro cui ambire era un’umanità migliore e più armoniosa, non il paradiso” e dalla comunità finlandese di Deep River fin qui, se c’è qualcosa che vale davvero è “tenersi aggrappati ai propri sogni”, e forse è tutto lì.
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