Negli ultimi anni Stephen King ha mantenuto la sua proverbiale prolificità, anche se il livello qualitativo è andato altalenando, e Billy Summers ne è un po’ l’esempio riassuntivo: un’idea avvincente e ricca di possibili soluzioni, uno sviluppo repentino e confuso, un finale pensieroso, e comunque irrisolto. Il presupposto essenziale, che è proprio nell’articolazione della personalità del protagonista, ovvero Billy Summers, è attraente: il killer attende il bersaglio predestinato sotto le mentite spoglie di uno scrittore in cerca di ispirazione. È solo una piccola parte di un complotto, che comprende, come è giusto e prevedibile, mandanti occulti e capri espiatori, faccendieri e tirapiedi, tutti ben posizionati da Stephen King. Il centro nevralgico rimane comunque Billy Summers: ha imparato a sparare nei marines, è un veterano dell’Iraq ed è talmente calato nella sua maschera da cominciare davvero un’impegnativa routine lavorativa, arrivando ben presto a pensare che “anche scrivere sia una specie di guerra, che però combatti con te stesso. La tua storia è esattamente ciò che ti porti addosso, e ogni volta che aggiungi qualcosa il fardello diventa più pensate”. Billy Summers, temuto, richiesto e infallibile sniper, si sdoppia allora in David Lockridge, amabile vicino di casa che si prende cura del giardino, partecipa ai barbecue e gioca con i pargoli del quartiere. Nel frattempo, celandosi sempre di più nella copertura, compila un racconto autobiografico che procede a tentoni nel buio e nell’evocare ricordi violenti e brutali. È la parte del romanzo più convincente: Stephen King accantona per il momento ogni elemento fantastico, sovrapponendo a più riprese la personalità reale e fittizia del protagonista, le voci dei narratori, nonché la sua. Il meccanismo è ingegnoso e per tutta la prima metà delle cinquecento pagine funziona, grazie all’equilibrio delle incognite e alla versione stratificata delle apparenze con cui Billy Summers deve mimetizzarsi nell’ambiente suburbano e famigliare. E forse non è un caso: fin tanto che indossa i costumi dello scrittore ed è costretto all’isolamento dal suo (falso) agente per nascondere la vera entità della sua missione, Stephen King, pur andando un po’ in automatico, compreso il cliché dell’ultimo incarico, riesce a coinvolgere. Dal momento in cui Billy Summers tira il grilletto, c’è quasi uno stacco netto, preciso e tutta l’elaborata sequenza iniziale, con il refrain dell’identità ribadito più volte, esplode. L’effetto dovrebbe essere dirompente con le diverse sembianze che si moltiplicano per sopravvivere, ma per Billy Summers e per il romanzo gli eventi cominciano ad andare più veloci e metterli a fuoco non è così agevole. Sembra di passare da un microscopio a un grandangolo: Stephen King si concede più svolte per tenere viva la trama, ma è come se la storia si sgranasse, e diventasse un po’ più complicata. Appaiono personaggi ingombranti, Billy Summers si srotola in un viaggio verso il Colorado e il Nevada, con annessa una citazione per l’Overlook Hotel e l’ininfluente apparizione di una presenza, unica concessione al sovrannaturale, lasciata giusto per non perdere le sane abitudini, non per altro. È la parte del romanzo che si ingarbuglia in cui, per ammissione dello stesso Stephen King, il paradosso ha un ruolo determinante (e d’accordo) ma le buone intenzioni suonano scricchiolanti. Più di tutto, sembra voler spiegare, se non proprio giustificare, come Billy Summers sia diventato quello che è e, nei fatti, fa i conti con i tanti (troppi) reduci delle guerre americane. E così, su una cosa Stephen King non si sbaglia: Billy Summers se lo porta dietro come un buco nell’anima, ma il vero orrore di questi anni va cercato a Falluja.
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