Forse ha ragione Zadie Smith quando, a proposito di Richard Yates e di Una buona scuola, sostiene che “in un certo senso la scuola era l’argomento perfetto per lui, ossessionato com’era dal divario con il modo in cui vediamo noi stessi e quello in cui siamo in realtà”. Quell’intima distanza si concentra nel perimetro di un plesso scolastico che è l’epicentro di rapporti, sia per gli affanni e i rimpianti dell’età adulta, sia per le turbolenze adolescenziali. Una miscela dal potenziale esplosivo, che La buona scuola contiene a fatica, rivelandosi (anche nella sua architettura) piuttosto un’istituzione barcollante, rigida soltanto nei residui della morale e vecchia nelle fondamenta. Nel fragile ecosistema della Dorset (così si chiama La buona scuola) le relazioni sono forzate perché i muri hanno le orecchie, e tutti sanno tutto. È come vivere in una bolla trasparente, limitati nei movimenti come nelle emozioni. Per William Grove è un impedimento, ma non più del tanto, avendo fin lì vissuto nella terra di nessuno della separazione dei genitori. Il padre, già appassionato cantante, è ormai un travet della General Electric, mentre la madre è un’artista disordinata e con poche speranze. Alla Dorset, che solo in apparenza è La buona scuola a cui la madre aspirava per il figlio, William Grove ci arriva con un limitatissimo portfolio di ambizioni. Non si adegua e non riesce a conformarsi, dagli abiti alla postura fino alle abitudini e alle regole, il suo profilo è senza alcun dubbio quello di un outsider. Le contorsioni di William per districarsi dallo stillicidio quotidiano di sberleffi e dispiaceri riflettono i tormenti che ospita la Dorset, dal preside che cerca di sopportare l’inevitabile destino che si avvicina alle faticose conduzioni famigliari, dalle risse per i motivi più futili alle prime, maldestre esperienze sessuali. Le sofferenze sono inevitabili, ma con il tempo William prova ad ambientarsi e, pur senza raggiungere un particolare status di successo, alla fine riesce a diventare il direttore del giornale scolastico e a credere che, alla Dorset, “con un po’ di immaginazione si riusciva a vivere da adulti”. Non un granché, visto che gli toccherà pubblicare l’ultimo numero (con la chiusura della scuola) ma almeno riuscirà a cavarsela, archiviando il tempo trascorso alla Dorset come un ricordo agrodolce. Attraverso gli occhi di William Grove, Richard Yates attiva una forza centrifuga che coinvolge una trentina di personaggi, a cui non risparmia nulla. La benzina delle frustrazioni non finisce mai e la routine scolastica procede senza intoppi significativi, ma, nel frattempo, le vite dei docenti e degli studenti si intersecano nello scenario di piccoli e grandi drammi, che sembrano destinati a erodere lentamente la convivenza forzata nella realtà bucolica e asettica della Dorset. Dalle liaison inconfessabili ai party notturni, dall’abuso di alcol a un tentato suicidio, tutto diventa irrilevante quando sopraggiunge il 7 dicembre 1941 e la guerra richiama alla nuova, brusca realtà anche La buona scuola. Da quel momento è come se la tensione che saldava e mascherava le diffuse ambiguità si sfaldasse, lasciando la Dorset sola e nuda con il suo bluff scoperto. Prima viene creato un campo d’addestramento poco più che amatoriale per gli allievi, poi molti studenti (e un professore) vengono risucchiati nell’esercito e nella marina e, con il primo caduto, in un attimo le pulsioni emotive e sessuali, il momento transitorio dell’adolescenza e le traversie degli adulti diventano minuscole parti della storia, suggellate dal fallimento della scuola e destinate a sbiadire in fretta. Con il suo stile martellante, Richard Yates non fa sconti nemmeno al lettore: La buona scuola costringe a seguire William Grove da vicino e a condividerne la faticosa ricerca di una personalità sfuggente che l’istituzione in sé e, per estensione, la società nel suo complesso, tendono a uniformare in schemi prevedibili. Un dolore solitario e collettivo insieme che Richard Yates interpreta con quel fraseggio duro, amaro e comunque brillante qui adatto allo scopo più che altrove.
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