Tre personaggi, tre famiglie, una miriade di diramazioni, due colori: le odissee di Ida Mae Gladney, George Starling e Robert Foster che lasciano il Mississippi, la Florida, la Louisiana per trovare un posto nelle vastità dell’America si annodano a una marea biblica che, nel corso del ventesimo secolo, trasformò il volto della nazione, perché “migliaia di aspirazioni frustrate e represse portarono gli individui dall’esasperazione estrema alla decisione di andarsene; quando furono milioni, diedero vita a un vero e proprio esodo di massa”. Seguendo le vicissitudini individuali al centro di un’imponente scelta collettiva, Al calore di soli lontani ricostruisce le migrazioni afroamericane mettendo l’accento sulle motivazioni che spinsero milioni di persone ad abbandonare la terra in cui vivevano e a partire. Più di tutto è stata determinante “la loro condizione nel sistema feudale in cui gli era toccato vivere, e la follia che poteva serpeggiare in qualsiasi momento”: lo sfruttamento (particolarmente odiosi i meccanismi della mezzadria), le cosiddette leggi Jim Crow, i linciaggi all’ordine del giorno, la segregazione e la sottomissione come frutti ormai marci della schiavitù, costituiscono gli elementi di pericolo, paura e tensione che diedero il via alla fuga e “quando le circostanze avverse li obbligarono ad andarsene, seguirono un flusso che durava da anni. La loro è la prova vivente che le emigrazioni innescate dall’animo umano non sono fenomeni misurabili con i numeri”. Servono le storie, e il lavoro di Isabel Wilkerson nel dipanare “il racconto epico della grande migrazione afroamericana” è impressionante ed enorme: racconta grandi privazioni, violenze e torture, ma anche l’evoluzione di una resistenza coraggiosa, di una forza straordinaria nella migrazione, dove i protagonisti “immaginavano un mondo diverso e libero: lo avevano visto nell’atteggiamento disinvolto, quasi superbo, nei vestiti e nei racconti di quelli del Nord. Per un breve istante avevano scorto un universo di possibilità al di là delle sbarre dell’esistenza quotidiana, e ora il mondo in cui si trovavano non aveva più un senso chiaro, era un enigma che lasciava strascichi sempre più marcati e inquietanti nella loro mente”. Le migrazioni si rivelano una sorta di esilio, che si sviluppa “non su uno sparpagliarsi caotico di anime perse, ma un vero e proprio reinsediamento, quantificabile e relativamente ordinato, lungo assi rappresentati dalle linee ferroviarie e degli autobus”. Anche al Nord, con la vita nelle metropoli e il proliferare dei ghetti, un’idea di stabilità e di dignità deve affrontare tutti i giorni lo spettro della miseria, la difficoltà ad avere una casa, un lavoro, un’istruzione, e quell’ombra persistente che cala tra il bianco e il nero. La conclusione di Isabel, in cima a seicento pagine di una ricerca fittissima, snocciolata come un romanzo, è eloquente, e priva di retorica: “Tutto sommato, si può dire che il denominatore comune degli emigranti fosse il desiderio di essere liberi come dice la dichiarazione di indipendenza, di potersi candidare a qualsiasi lavoro, di giocare a dama con chiunque, di occupare un posto qualunque sul tram, di vedere i propri figli andare a ritirare la laurea che a loro era stata negata. Se ne andarono per inseguire una versione della felicità, e poco importa se la ottennero o no. Fu qualcosa di apparentemente semplice, scontato per la maggior parte degli americani ma categoricamente proibito agli emigranti e ai loro progenitori, nella terra da cui partirono”. È il motivo per cui Al calore di soli lontani ci troverete Martin Luther King, Mahalia Jackson e James Baldwin, Ray Charles e Richard Wright e Langston Hughes, ma anche quell’anonimo che scriveva da Birmingham, Alabama: “Sono nel buio del Sud e faccio del mio meglio per uscire. Oh, per favore, aiutatemi a uscire da questa terra abbattuta. Conto come un cane, o poco più, aiuto, per favore, aiutatemi”. Una lettura importante, che delinea con chiarezza una prospettiva molto precisa sulla complessa natura della società americana.
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