Tempo fa qualcuno ha scritto che, al momento di incidere un disco, Dylan prende quanto c’è di meglio sul mercato e si porta in studio i musicisti per dare forma compiuta alle sue canzoni. È una percezione realistica e valida per gran parte della sua carriera, ma ci sono casi specifici in cui è parso più in cerca di una visione sonora, indipendentemente dai musicisti, dallo studio di registrazione e, a costo di apparire eretici, persino delle canzoni. Blonde On Blonde è forse la pietra angolare di quella propensione sia per esplicita ammissione dello stesso Dylan (“Ho quasi raggiunto la musica che immagino nell’album Blonde On Blonde: un suono sottile, mercuriale e selvaggio. Metallico e lucente, con tutto ciò che evocano queste parole. Quello è il mio vero suono”) sia per la considerazione del suo produttore, Bob Johnston: “Credo che sia stato l’inizio di tutto”. Una definizione che ha un senso, proprio perché Blonde On Blonde è stata la fonte a cui hanno attinto due o tre generazioni differenti di songwriter e rock’n’roll band, da John Mellencamp, Bruce Springsteen e Tom Petty a Robyn Hitchcock fino a Jason Ringenberg che con i suoi (Nashville) Scorchers ha dato vita a una sorprendente versione di Absolutely Sweet Marie. Il motivo va cercato proprio nel sound che secondo Greil Marcus “non è solamente integro; nelle singole canzoni non è mai identico, ma è sempre coeso, compatto. Possiede un bagliore che sembra provenire dall’interno della musica stessa”. La citazione non è casuale: lo schema seguito da Daryl Sanders è quello usato da Greil Marcus in La repubblica invisibile e ancora di più in Like A Rolling Stone, con una ricostruzione meticolosa delle sedute di registrazione, accompagnata da un’analisi delle canzoni. Daryl Sanders però si mantiene a un livello più appetibile, dedicandosi con scrupolo e pazienza a seguire Dylan, Bob Johnston, Robbie Robertson, i germogli della Band e soprattutto i musicisti di Nashville. La sensazione è quella di essere lì, con loro a inseguire il tempo giusto di una canzone o ad aspettare le parole, e con Dylan che sguazza nel suo elemento perché “a Nashville ti concedono più spazio che a New York. A Nashville la gente si siede e aspetta anche tutta la notte, se non ti senti pronto. A New York te lo puoi scordare”. Come succede spesso con tutto ciò che sfiora Dylan, la lavorazione segue cadenze indecifrabili: i musicisti rimangono in attesa per ore, spesso per tutta la notte, per poi essere chiamati a suonare senza sosta una take dopo l’altra. Una prassi riassunta così da Daryl Sanders: “Ai musicisti di Nashville non era mai capitato nulla del genere. Sebbene avessero già lavorato a tarda notte con artisti come Elvis Presley, non erano abituati a fare l’alba. Speravano che l’attesa del giorno prima fosse dovuta più che altro al ritardo del volo di Dylan, ma con il passare delle ore, in quella seconda notte di session, iniziarono a rendersi conto che le cose non stavano così”. Una disciplina singolare, assecondata da Bob Johnston, un produttore che lasciava molta libertà ai musicisti e vigilava sulle session. Va ricordato che allora si usava provare e riprovare le canzoni fino ad arrivare alla versione ritenuta idonea. Le sovraincisioni erano limitate, mentre oggi sono la routine principale. In un modo o nell’altro i musicisti dovevano entrare nella canzone e nello stesso tempo creare un suono, un habitat per le parole, e si capisce quando Dylan diceva che la musica cominciava a filtrare “con l’esplodere dell’alba”. Daryl Sanders, nell’introduzione Un sottile, selvaggio suono mercuriale, sostiene che “Dylan sapeva che cosa stava facendo, e sapeva che lì avrebbe trovato quello che stava cercando”, ma l’ipotesi è sibillina. Data la sua rivisitazione di quei giorni, peraltro molto particolareggiata e avvincente, non pare così automatico. Il ritratto di Dylan è più quello di un rabdomante che a Nashville, per intuito, per necessità, per vocazione e magari anche un po’ per caso, ha scoperto le condizioni ideali, forse irripetibili, per esprimersi al meglio. Di fatto, nella tortuosa gestazione di Blonde On Blonde, Dylan ha costruito e ribadito un’intera identità pescando nel caos un destino ancora tutto da decifrare.
L'ho letteralmente divorato. Lavoro certosino di Sanders che è andato a ripescare i dati di registrazione giornaliera dei Columbia Studios, materiale quasi disperso che fa comprendere con quale maniacalità abbia operato Sanders. Imprenscindibile non solo per chi ama Dylan
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