Introdotta
da Kenneth Rexroth, questa raccolta di frammenti è una sorta di
salto in lungo avanti e indietro nel tempo, in cerca di qualcosa che
non c’è più o non c’è ancora. L’assemblaggio, per niente
organico, un po’ scomposto, ha come unico fattore dominante la voce
di Henry Miller, spezzata dalle linee di demarcazione, storiche e
geografiche, della seconda guerra mondiale. Un cadavere ancora caldo
che in Il veterano alcoolizato con il cranio
ondulato, viene attribuito a quella logica
per cui viene ordinato “a milioni di innocenti di sterminarsi a
vicenda, e quando il sacrificio è compiuto autorizziamo un pugno di
uomini bigotti e ambiziosi, che non hanno mi saputo che cosa sia la
sofferenza, a riorganizzare le nostre vite”. Cosa c’è di
sbagliato in queste parole? Niente, purtroppo, perché si possono
adattare senz’altra variazione a qualsiasi giorno dal 1955, ovvero
da quando sono state scritte, a oggi. Una prima diretta conseguenza è
l’ammissione che una percezione del destino si è frantumata e
ormai non ci sia “nulla da cui ricavare poesia, a parte la morte e
la desolazione. Non si può far una poesia su un’automobile o una
cabina telefonica. Prima di tutto, è il cuor che deve essere
intatto. Bisogna essere capaci di credere in qualcosa”. Nello
specifico momento Henry Miller si accontenta di seguire il flusso dei
racconti, sapendo che “quando una storia si ascolta volentieri, se
si in seguito salta fuori che si trattava di una menzogna, tanto
meglio, una bella menzogna mi piace quanto la verità. Una storia è
sempre una storia, vera o inventata che sia”. Non è molto, ed è
la giustificazione, abbastanza fragile, che regge un delirio come
Fricassea astrologica
(basta il titolo) o la prosopopea delle divagazioni, sue o dei suoi
ospiti, che poi trovano in Dieppe-Newhaven e
ritorno tutto lo spazio, fin troppo, una
specie di varco temporale per riprendersi il tempo dei Giorni
tranquilli a Clichy, compresa una colorita
boutade sulla natura e sull’essenza di Tropico
del Cancro. Molto più definito Il
ponte di Brooklyn che evidenzia, una volta di
più, quella capacità di elevare i luoghi a qualcosa di leggendario,
con una vita propria. Qui, nel magma della scrittura di Henry Miller
si possono ritrovare accenni di Primavera nera
e la lucidità che pervade L’incubo ad aria
condizionata quando scrive: “Quella che
viene chiamata storia è soltanto la carta sismografica delle
esplosioni e corrosioni prodotte dall’aborto di un nuovo e salutare
tipo di uomo in non si sa quale oscuro periodo del passato. Questo
passato, come il futuro che lo dissolverà, si nutre della coscienza
dell’uomo di oggi. L’uomo d’oggi viene trasportato dalla sua
stessa corrente; i suoi momenti di maggiore chiarezza non sono
diversi nella qualità e nella trama della stoffa dei sogni. La sua
vita è come una cresta schiumante di una lunga ondata che sta per
frangersi sulla costa di un continente sconosciuto. Ha lanciato i
suoi detriti davanti a sé; si infrangerà pulito contro una solida
muraglia di flutti”. Il più vivido dei racconti è quello dedicato
a Mademoiselle Claude,
la dimostrazione vivente che “in un certo senso, la parola
prostituta non è abbastanza grande”. L’ammirazione è
incondizionata e le parole per Mademoiselle
Claude sono le uniche proiettate con
decisione verso il futuro: “Sento che anche se vivo con un angelo,
dovrei cercar di fare un uomo di me stesso. Dovremmo andarcene da
questo lurido buco, a vivere da qualche parte nel sole, una camera
con il balcone che dà sul fiume, uccelli, fiori, la vita che scorre,
soltanto lei e io e niente altro”. Henry Miller è determinato nel
proposito, così come nella sua negazione: “Non voglio dire che non
era sincero quel che avevo scritto, ma dopo quel primo gesto
spontaneo, non so, era soltanto letteratura”. C’è molto Henry
Miller in queste notti di riso e d’amore, ma è disordinato,
contraddittorio e sparso in briciole prima e dopo la guerra, al punto
che Porto Poros,
l’estratto da Il colosso di Marussi messo
in fondo, sembra voler ricominciare, ed è solo il ricordo di “una
stella finita”.
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